Michael Mann, regista notturno, che racconta di uomini irrimediabilmente perduti in se stessi. Uomini tragici, che non possono far altro che seguire il loro destino, torna dopo otto anni con Ferrari, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Ancora una volta con la storia di un uomo, in una fase critica della vita. Non è il mito di Enzo Ferrari (Adam Driver) che abbiamo visto sullo schermo e neanche un biopic, nel senso tradizionale del termine, bensì il susseguirsi di una serie di eventi che hanno segnato il 1957, anno terribile in cui alla morte del figlio Dino, avvenuta nel 1956, seguono sventure e allontanamenti. La Ferrari, di cui oggi conosciamo il mito, non naviga in buone acque, la vita privata di Drake (il soprannome di Enzo Ferrari) è giunta a un punto di non ritorno. La moglie Laura è al corrente dei suoi tradimenti, l’amore sembra finito, eppure la sua rabbia ci dice che quell’uomo così sfuggente, quel partner in affari, un tempo pilota spericolato, anche se non tra i più vittoriosi, è stato colui a cui ha consacrato la sua vita, di donna, moglie e madre, votata alle tradizioni e costretta invece ad affrontare il conflitto, l’indecisione, la menzogna e persino un nuovo amore, perché Enzo è tutto fuorché un uomo privo di ombre.
Pervaso dal fuoco della passione per la velocità, è nella vita privata un uomo moderno, che alle tradizioni preferisce i sentimenti. La scena in cui Laura (Penélope Cruz) scopre nel cortile della dimora di Lina Lardi (Shailene Woodley), l’amante e rivale, dell’esistenza di un altro figlio, è una lezione di cinema, dove con pochissimi gesti ed espressioni, e grazie al potere della musica e della fotografia, ci viene raccontato un intero universo interiore. Non semplicemente un tradimento, ma l’andare in pezzi del sogno di una vita. Laura ha fallito non tanto e non solo come compagna, ma come donna, incapace di dare a Enzo un erede, morto appunto prematuramente. La morte del resto è l’altra grande protagonista. Muoiono i piloti per spingersi oltre i limiti e per i difetti di fabbricazione delle autovetture, muoiono gli spettatori ignari (con riferimento alla tragedia di Guidizzolo, dove Alfonso de Portago, sul finire della Mille Miglia, perde il controllo dell’auto per colpa dello scoppio di un pneumatico e letteralmente falcia nove spettatori, tra cui cinque bambini, lasciandosi alle spalle, oltre a questi morti, altri feriti, e perdendo lui stesso la vita insieme al suo co-pilota). In un periodo storico in cui le corse su strada erano ancora uno spettacolo popolare molto amato, si consumano i rapporti, costretti a una dolorosa trasformazione. Alla morte si parla, o meglio a quell’aldilà della cui esistenza non siamo certi, ma che nel caso della morte di un figlio diventa rituale monologo, quasi confessione quotidiana, nella speranza di essere ascoltati o di mantenere un contatto. L’assenza è lo stimolo per rendere grande il marchio Ferrari, dedicato a Dino, ma anche all’Italia, che grazie a questa folle avventura si trasforma in un paese capace di uscire a testa alta dalla guerra.
Poi si accendono i fari nella notte. La Mille Miglia ha inizio e inquadratura dopo inquadratura riconosciamo lo stile personalissimo di Mann, vero e proprio maestro nel dare forma all’azione, alla velocità, alla sinfonia dei motori. L’accuratezza è un altro tratto distintivo del film, non solo la ricostruzione degli avvenimenti, ma l’approfondimento della psicologia dei personaggi tanto quanto il lavoro sulle auto d’epoca. Sebbene per certi versi si tratti di un’opera in cui il suo autore fa non uno, ma più passi indietro, nel restituire i tormenti dei suoi personaggi, rinunciando a inquadrature memorabili, divenute iconiche all’interno della sua filmografia per composizione, colori e “temperatura” melodrammatica, cercando di essere più asciutto, in armonia con la recitazione di Driver, sempre misurata, anche nei conflitti più accesi, Ferrari ci appare come un film enigmatico. Capace di sollevare più dubbi che certezze, di tradire le nostre aspettative più superficiali tenendoci a distanza, come gli occhiali indossati dal suo protagonista, la pellicola ci suggerisce di andare più a fondo, chiedendoci di abbandonare quel velo, quel mito, che ci distraggono, spingendoci a leggere la storia di Enzo Ferrari come l’immaginario collettivo l’ha ammantata fino ad oggi. Mentre Enzo ci sfugge, è su questo lascito che dobbiamo concentrarci.