La musica nella Internet Age tra postculture e recuperi. Ne abbiamo parlato con Simone Trabucchi di Invernomuto, a proposito del suo nuovo progetto musicale STILL, che propone una versione personalissima della dancehall: una sorta di ritorno dell’esotico percorso da una sensibilità minimalista a La Monte Young.
Nel 1939 Aimé Césaire, in Cahier d’un retour au Pays natal, introduce il termine “negritudine”. Nel 1993 Paul Gilroy pubblica The Black Atlantic. Nel primo, la “negritudine” identifica una condizione abitativa ibrida che legge nel Paese natale ritrovato il luogo delle origini e dell’evasione dal presente. Nel secondo, la “nave negriera” viene considerata un “sistema vivo micropolitico e microculturale in movimento”. La direzione è quella della critica postcoloniale. L’ideologia è la rappresentazione, questione teorica chiave già posta in Orientalism di Edward W. Said. Che cosa significa rappresentare? Per l’Occidente: costruire degli “archivi” culturali, ossia delle totalità organiche tenute insieme da una lingua e da un luogo. “C’è molto imperialismo anche nella musica”, afferma Simone Trabucchi di
Invernomuto mentre parla di Still, il suo nuovo progetto musicale. “Il dub nasce come un errore in studio di registrazione, in Jamaica, ma il ‘genere’ è un’invenzione degli inglesi”. Partiamo da questa affermazione per inquadrare una questione complessa, che oggi passa sotto l’etichetta di “musica post-globale” e che il collettivo Norient, in Seismographic Sounds – Visions of a New World, ha definito come il laboratorio costantemente in fieri dell’Internet Age, costituito da “niche genres, parodies on exotica, post-digital visions”, “a changing geography of multi-layered modernities, far beyond old ideas of North versus South, East versus West”.
Non si parla più di world music, espressione coniata dall’etnomusicologo Robert E. Brown negli Anni Sessanta e divenuta una ondivaga categoria di mercato, ma di una rinnovata sensibilità culturale che percorre il discorso musicale, facendolo incontrare con altri studi e discipline, con la finalità di mettere in discussione i tradizionali concetti di identità, alterità, esotismo e persino multietnicità. “Non considero ‘Still’ un progetto folk, perché parte dalla dancehall degli Anni Novanta”, riprende Simone, facendo riferimento a un trend del 2016, secondo FACT Magazine, e alla critica del concetto di avanguardia nell’elettronica, a fronte della pervasività dei recuperi. “Dentro ci sono molti ingredienti. Sicuramente parte da ‘Negus’, il documentario che ho realizzato con Invernomuto, che è stato un modo per avvicinarmi alla tematica reggae e dub con una sensibilità storica. Oltre a me, ci sono sei cantanti afro-italiani, che in questo contesto stanno cercando una lingua per esprimersi, cantando in inglese, tigrino e amarico”.
L’equilibrio è fragile, gli stereotipi saltano, le letture sono a più livelli, ogni progettualità è unica. Di cosa stiamo parlando? Della rivalutazione della dancehall, genere “minore” rispetto al reggae di Bob Marley e al dub di Lee “Scratch” Perry? Dell’identità italiana in un mondo globale e del suo passato coloniale? Di musica sperimentale versus folk urbano? Di Hailé Selassié I, imperatore di Etiopia e incarnazione di Cristo per la comunità rasta? Che ha dato l’opportunità agli africani, vittime della diaspora, di trovare in Shashamane la terra promessa? A tutti coloro che interpretano la Storia per capitoli e generalizzazioni, il post-globale, come il post-coloniale, oppone le microstorie metropolitane, considerando l’identità culturale come l’invenzione di un sangue bastardo.
“I confini e le categorie sono una mistificazione. Un artefatto racconta molto di più delle necessità di un popolo e dei suoi viaggi”. Le rotte prendono il sopravvento sulle origini. Oggi gran parte della musica “nera” si trova in Giappone. “Molti dei 7 pollici collezionati per la mia ricerca li ho trovati là, perché in Jamaica non esistono più vinili: i giapponesi hanno comprato interi negozi”. In Still la ritualità del soundsystem è un ritorno dell’“esotico” percorso da una sensibilità minimalista alla La Monte Young, ma rappresenta anche la costellazione di geografie e saperi che caratterizzano le sonorità post-globali, figlie di un “nuovo Illuminismo”, se così possiamo definire l’illuminazione della cultura elettronica nell’era dei thick data.
Articolo pubblicato su Artribune e Artribune Magazine #39