Tra corpo e metafisica, reale, irreale e possibile. Saranno due le mostre dell’artista italo-palestinese Mustafa Sabbagh che inaugureranno a novembre a Ferrara. Un vero e proprio viaggio nel suo universo metamorfico e cosmopolita attraverso fotografie e interventi multimediali site-specific.
Manichini bianchi, abbacinanti, bendati, uccelli notturni, habitat contaminati, paesaggi fumosi, sonnambuli tabagisti: questa volta Mustafa Sabbagh, conosciuto per la teatralità delle sue opere tanto quanto per la crudezza e nudità dei suoi corpi, ci ferisce davvero e profondamente con la bellezza. Tra il Museo Civico di Storia Naturale e la Palazzina di Marfisa d’Este si snoda un percorso che suona come un’ode al nero, per oltrepassarlo: morte, vita, umano, animale, reale e virtuale si incontrano “per liberarci dagli effetti analgesici dell’abitudine”.
V: Madre italiana, padre palestinese. Nelle tue vene scorre sangue cosmopolita. Ma un principio di radicamento c’è sempre. Cosa conservi in te di questo incontro?
MS: Conservo e custodisco come un bene assoluto la contaminazione: non di luoghi, ma di pensieri. La contaminazione dei miei pensieri è un’infezione. È virale. Pensieri infetti hanno reso la mia mente più forte, e tendenzialmente sconnessa – esattamente come agiscono i virus.
V: Il tuo sguardo è allegorico, la tua rappresentazione iconografica e teatrale. Le tue fotografie sono meravigliose messe in scena. Eppure quando le guardo vorrei togliere tutto. Scoprire quale uomo o donna si nasconde dietro alla maschera. Vestire e spogliare, che cosa rappresentano per te?
MS: Jean Baudrillard disse: “La fotografia è il nostro esorcismo. La società primitiva aveva le sue maschere, noi abbiamo le nostre immagini. Crediamo di fotografare una determinata scena per semplice piacere, ma in effetti è lei che vuole essere fotografata. Non siamo altro che la comparsa della sua messinscena”. In questo senso nella mia fotografia non esiste messinscena, ma umana risposta ad un bisogno. Non esiste maschera, ma individuo: prosopon, la maschera degli attori nel teatro greco, è la radice etimologica di persona. Il teatro non è finzione, è coscienza critica, interpretazione di vita che richiede attenzione. Mitopoiesi. Vestire è spogliare. In definitiva, nel mio senso infetto e nomadico, non esiste re-citazione, ma gioco: l’autentica ludicità è sempre lucida autenticità.
V: Il nudo o la pelle? La forma o il tessuto?
MS: La sostanza, che è anche forma. E la pelle, microchip di forma e sostanza.
V: Il movimento è un principio d’ordine che può essere colto solo da nomadi e viaggiatori. Quando però questo sguardo mobile si traduce in rappresentazione, gli esiti possono essere molto diversi. Perché congeli tutto nell’estetica?
MS: Perché l’estetica è cristallizzazione dell’etica, nella misura in cui la sensazione, la percettologia, l’estetica contemporanea di Gadamer e di Heidegger, di Witkins e di Mapplethorpe, sono indici del polso umano universale. Il senso è radice, parola di esteta amante dei nonsense.
V: Che senso trovi nel gioco simbolico e citazionistico?
MS: Il simbolismo è un gioco di rimandi che presuppone, come unica regola, la cultura dei giocatori. Senza maturità iconografica, artistica, culturale, non sei altro che uno degli avventori intorno a un tavolo: guardi, ma alla fine non partecipi. Simboli e citazioni sono riesumazioni, resurrezioni concettuali, fatte mie e rese attuali. Legge di Lavoisier 2.0: l’uomo non è che una variante di se stesso.
V: C’è qualcosa di cupo nelle tue fotografie e non credo si tratti solo di ispirazioni pittoriche, come quelle che provengono dall’arte fiamminga. Trovo che tu abbia “qualcosa” che definirei magnetico. Da dove viene questo buio? Preferisco descrivere così il tuo nero. Il nero è un colore, il buio è una sensazione.
MS: Da dentro, e da fuori. Da dentro, introietto le mie ispirazioni ed estrinseco le mie aspirazioni, che nascono nel buio e incontrano il nero, come per ogni ciclo vitale. Inspiro ed espiro, e la mia fotosintesi è la fotografia. Da fuori, è un atto dovuto di riscatto, di scardinamento di un pregiudizio che demonizza ciò che in realtà ci accoglie. Nero non è avversità; è profondità. Non c’è riposo senza il buio. Onore al Nero è, in definitiva, il mio modo sussurrato di concepire l’arte e un messaggio. Una rivoluzione in smoking.
V: La maschera e il rapporto con l’io. Impedire di vedere dà una naturalezza inaspettata. La tensione si allenta. Si lascia andare il controllo. Che relazione instauri quando copri un volto?
MS: La perdita di un senso acuisce i restanti quattro, e il sesto. Nel capolavoro di José Saramago, la cecità è bianca, statica e alienante; la cecità che induco nell’oscurare il campo visivo altrui, in una relazione del tutto simile a quella dialettica di un amante che si abbandona all’altro, è nera, dinamica e rivelatrice. Oscurare per entrare in asse con il sé più profondo, permettendo di riconoscere e abbracciare il nero in cui esso vive.
V: La ricerca della bellezza. Schiavitù o liberazione?
MS: La vera bellezza ferisce, ed io sono profondamente sadico nello svolgimento del mio compito: la sua ricerca. Schiavitù e liberazione, la douleur exquise… perché il mio organo più erogeno è la mente.