Come nota Franco La Cecla: “[…]. L’Italia è sempre più la moda ma è soprattutto l’allusione a qualcosa che dovrebbe risultare immediato a chi ha veramente conoscenza della “bella vita”. […]. La moda si prospetta davvero l’unica immagine unificante in un paese che fa ancora fatica ad autorappresentarsi. Pasta, pizza, Venezia, Roma, Milano, ma soprattutto la moda. […]. L’Italia del dopo Schengen è un’Italia che sa solo ciò che non è. Non è l’America perché per noi quello stile di vita è esotico, né l’Europa manageriale e industriale. È un paese che si ritrova lo stile come risorsa, ma se lo trova senza sapere dov’è”. (La Cecla Franco, Jet-lag, pag.88-90).
La moda e con essa il turismo, è produzione di scenari, stili di vita e di pensiero; narrazione e messa in scena di immaginari che prendono forma e corpo nella comunicazione, dove centrali più che le riflessioni sull’identità sono il potere del marchio, del logo e della pubblicità. Lusso e ricchezza sono immagini e valori dominanti a tal punto da scardinare i meccanismi riproduttivi di intere società, mostrando anche il volto delle nuove classi emergenti – come i chiuppies, gli yuppies cinesi e indiani, che tutte le aziende straniere fanno a gara per conquistare – e promuovendo la deterritorializzazione di luoghi, città e persino marchi locali che, per emergere, in connessione con particolari congiunture di rilancio, come accade ad Hong Kong, non di rado si presentano con nomi fake italian (La Cecla Franco, Jet-lag, pag.82) o fake europe.
Lo stile allora di fronte all’assenza di stabilità e al caos generato dai sistemi sincretici della comunicazione globale, diviene un sostituto per l’identità e la nazionalità, un territorio che parla il linguaggio della democraticità e dell’internazionalità delle multinazionali, che a loro volta, estese, sconfinate e antropofaghe, per impattare sia globalmente che localmente, attingono da culture particolari, etniche, epoche passate, scenari futuribili, simbologie, stili di vita, estetiche, pratiche e valori (al riguardo è importante ricordare che l’accesso ai parchi a tema della Disney comporta la sostituzione temporanea del proprio passaporto e con esso di identità e nazionalità legittimate dagli stati, in favore dell’adozione di identità e appartenenza effimere, e della loro consegna al sistema capitalistico, che ben al di là di questi mondi, è responsabile della crisi degli stati-nazione e dei loro principi identitari), rendendo ancora più difficile ogni classificazione relativa all’appartenenza territoriale e mentale.
I territori diventano temi per le strategie di marca, che ne promuovono la mercificazione e formulazione in qualità di brand, dichiarandone lo statuto di sistemi comunicativi artificiali, in grado, in rapporto con altri media – cinema, televisione, magazine, newspaper, pubblicità, moda, store, musei -, di legittimare le proprie mutazioni. Per comprendere meglio questo processo, si può citare l’esperienza dell’Asiatropic Style: vero e proprio marchio dell’Asia contemporanea, costruito con strategie di brand identity per promuovere, attraverso politiche glocal della tradizione, nuovi orientamenti di sviluppo e crescita economica, e porre in relazione l’attenzione per la specificità locale e la spinta delle nuove industrie della moda; il controllo tassonomico della differenza e la riformulazione per mezzo di operazioni di keyword remix dei cultural trademark.
La nuova tendenza ispirata dal marketing di considerare la nazione in qualità di brand è motivata dalla necessità della conquista di posizioni decisionali entro l’arena competitiva globale, dove tutto viene orchestrato e negoziato: dalle politiche d’immagine agli interventi militari. Di tali manovre propagandistiche, di “social and cultural engineering” e “rewriting history” sono responsabili tanti e differenziati soggetti: dalle ambasciate ai ministeri, dai politici ai personaggi della scena pubblica internazionale, dalle media&entertainment industries alle marche, alle corporation, dagli advertiser alle industrie creative, dalle agenzie turistiche ai turisti stessi, dalle istituzioni ai cittadini, agli stranieri, che assemblando descrizioni e distorsioni, ne incrementano o sottraggono il valore culturale e economico, di fronte a pubblici e consumatori confusi e dislocati. Da qui la complessità dell’attività del nation branding che, attraverso l’intersezione di una molteplicità di variabili, si occupa della produzione di una brand matrix come punto di partenza per la costruzione del brand e del suo posizionamento. Volendolo schematizzare, esso prende in considerazione sei livelli o canali di comunicazione, tra loro intrecciati, ma rappresentati per mezzo di un esagono che serve per orientare la progettazione strategica:
Turismo: è la forma più aperta di nation branding. Di solito coinvolge grandi investimenti, anche stranieri. Le immagini che consegna spesso sono riduttive e unilaterali.
Export brand: si tratta di brand nazionali conosciuti ampiamente a livello internazionale o globale, distintivi e attrattivi. È tra gli asset più potenti, in termini valoriali e culturali, che un paese può esportare.
Foreign & domestic policy: riguarda il ruolo giocato sul piano nazionale e internazionale da leader politici e sociali.
People: sono le persone comuni in qualità di ambasciatori del proprio paese.
Investment & immigration: riguarda la facilità di generare business venture e investimenti verso l’interno e l’esterno, e il potere attrattivo nei confronti di possibili trasferimenti di persone.
Culture & heritage: si tratta di una dimensione che assegna valori che vanno al di là di quelli economici, che determinano nella percezione di una nazione: dignità, rispetto, qualità della vita.
Se da un lato sono molteplici i soggetti informativi e le immagini che definiscono la nazione, dall’altro esistono simboli che hanno valore in relazione alla percezione esterna e che inscrivono sommariamente la molteplicità entro l’unità. Un’unità che oggi si configura come una delle tante possibili, pertinenti a diversi sistemi di significato che si trovano intrecciati. L’esistenza e persistenza di simbologie identitarie e culturali non giustifica significazioni rigide e immutabili; al contrario sistemi di relazioni contestuali danno luogo a pluralità interpretativa e creazione di identità alternative.
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006. Wonderland, Parte II.