Nicolas Maigret e Brendan Howell ci traghettano dalle autostrade dell’informazione alla meraviglia dello schermo, trasformando, a Transmediale 2015, l’esperienza cinematografica in un live set che rivela la geografia dello sharing peer-to-peer.
V: Com’è nato The Pirate Cinema?
NM: Stavo ragionando sull’idea del network come “essere indipendente” e sulla non linearità dei processi di download e sharing. Volevo realizzare un nuovo progetto e così ho coinvolto Brendan, che è un ingegnere, proponendogli di lavorare sul P2P, cercando di rendere tangibile il suo scambio immateriale. Una volta elaborato il software abbiamo immaginato la video installazione.
V: Che cosa accade esattamente nell’installazione?
NM: Si entra in una monitoring room, dove sono connessi più computer che trasferiscono file in tempo reale. Un bit torrent protocol scarica i torrent più visti, che vengono proiettati su uno schermo, dove va in scena un incessante cut up di tutto ciò che viene maggiormente spedito e ricevuto nel mondo.
V: Durante Transmediale abbiamo assistito a una perfomance live. Che cosa la accomuna e differenzia dalla versione originaria?
NM: L’obiettivo rimane lo stesso: rivelare la geografia nascosta dello sharing peer-to-peer. Nel live, il sistema di download è sempre automatico, però possiamo scegliere noi i file da scaricare e questo ci consente un minimo di interpretazione. Spesso ci lasciamo ispirare dal contesto locale e culturale dove avviene la performance.
V: Visualizzare la geografia del P2P. Perché?
BH: Il P2P è molto di più di un file sharing, è una relazione dinamica in un mondo distribuito. Riguarda la modalità con cui sono organizzati i computer e anche le persone. Volevamo riflettere e visualizzare questa libertà di produrre, condividere e lavorare insieme “senza chiedere il permesso”.
V: Con The Pirate Cinema il medium diventa uno strumento creativo. Non è però la prima volta che fate incontrare tecnologia e arte.
NM: Ogni giorno produciamo dati, che ci consentono di vedere immagini, compiere azioni, apprendere notizie. Ma la maggior parte di noi non è in grado di comprendere il linguaggio delle macchine. Ho sempre cercato nei miei progetti di umanizzare la tecnologia, rivelandone gli aspetti critici e nascosti. Il primo programma che ho realizzato traduceva il codice in immagini, permettendo al pubblico di visualizzarlo o esperirlo con altri sensi. Questo desiderio di far parlare la tecnologia e di svelare le sue ricadute politiche e sulla vita di tutti i giorni è il filo conduttore dei miei lavori.
V: Dal VHS al P2P, che cosa è cambiato?
NM: Negli ultimi dieci anni il P2P computing è diventato molto popolare, perché ha consentito uno scambio orizzontale di contenuti che ha riportato in auge l’utopia della libera circolazione delle informazioni dei primi anni di Internet. Pensando al cinema la rivoluzione è stata altrettanto grande. Se negli Anni Ottanta il VHS lo aveva reso disponibile nel salotto di casa, con Internet e il P2P è arrivato sui personal computer e sui cellulari, determinando un ulteriore cambiamento della fruizione. In The Pirate Cinema l’iper-frammentazione della narrazione del resto non è solamente un linguaggio o una modalità di rappresentazione indotta dal protocollo, ma anche una riflessione sull’attività del raccontare e sulle caratteristiche del tempo che oggi dedichiamo al consumo di storie.
V: Culto del frammento e del mash up. Una nuova forma di cinema?
BH: Sì, certamente. Lo sharing dei file, provenienti dai diversi utenti, è frammentato. La selezione randomica del nostro software, origina un racconto frammentato. Da una prospettiva cinematica questo taglia e incolla del protocollo definisce una nuova struttura narrativa, in cui senso e forma dipendono dal collage.
V: Cosa intendete per tube logic?
NM: Semplicemente che The Pirate Cinema propone una fruizione cinematografica intesa come digital stream, che segue the logic of cables, cioè i percorsi dei dati e delle informazioni all’interno del network.
V: La perfomance mi è sembrata molto più simile a un dj set più che ad un’esperienza narrativa. Perché parlate di storytelling?
NM: Dipende dalla prospettiva che si adotta. A livello macro il plot e la narrazione sono presenti, nel senso che abbiamo dei capitoli con dei contenuti. Se però ci addentriamo nell’esperienza della fruizione allora ci accorgiamo che non c’è niente di intenzionale e che i contenuti sono delle porzioni pescate casualmente in altre narrazioni e che vengono tagliate e mixate con la stessa casualità.
V: Ordine e caos che cosa rappresentano?
BH: È sempre una questione di macroscala e microscala. Da un lato c’è l’ordine, dall’altro una struttura aperta, dove non si forza né controlla nulla.
V: Come lavora esattamente il software?
BH: Abbiamo un bit torrent protocol che riconosce gli altri peer. Quando cerchiamo un file lui ci mostra tutte le persone connesse che lo posseggono e da lì diamo il via allo sharing. Il processo che segue è orizzontale e decentralizzato. Il nostro computer è sempre connesso e quotidianamente seleziona porzioni di file tra quelli che sta scaricando e che noi possiamo scegliere.
V: Non potete controllare la narrazione perché avviene in maniera libera. C’è qualcosa che è sotto il vostro controllo?
NM: Diciamo che il controllo non è il presupposto di questo progetto, che invece punta tutto su un’esperienza di fruizione del contenuto randomica. Scegliendo di aggiungere più o meno file, però, possiamo ottenere un effetto visivo e sonoro più o meno accelerato.
V: Il medium è il messaggio, diceva Marshall McLuhan. Ma è anche linguaggio, e in The Pirate Cinema la mescolanza dei file determina un montaggio che prende la forma del collage. Cos’è cambiato rispetto al passato? Come siamo passati dal collage come pratica artistica al collage come protocollo?
NM: Se quello che intendi è il rapporto con l’intenzionalità, sicuramente per noi il collage non è una scelta ma il risultato del funzionamento del mezzo. Nello show, diversamente dall’installazione, abbiamo la possibilità di gestire molte parti narrative rispetto al flusso di immagini e suoni. Non si sta comunque parlando di un’idea tradizionale di collage, semplicemente noi stabiliamo delle condizioni che orientano l’attenzione ma la fruizione avviene in maniera completamente libera. Per quanto riguarda invece il nostro background, certamente il collage riscuote un certo fascino. Non tanto come pratica legata alle avanguardie bensì come ritorno, in altre forme, nella musica degli Anni Novanta.
V: Dalla purezza dell’immagine alla sua distruzione attraverso il glitch. Che cosa ne pensate?
BH: Da un punto di vista visivo il linguaggio del glitch oggi è un trend, come lo è la patina vintage di Instagram. La tecnologia, del resto, nel momento in cui dichiara di essere l’avamposto dell’innovazione, ci restituisce anche una sorta di nostalgia del passato. Per noi il glitch però è un risultato più che una ricerca stilistica. Nel senso che ha a che fare con una distruzione dell’immagine determinata dal software. I glitch appaiono perchè i file che convergono nel bit torrent non vengono tagliati nei punti giusti, quindi questa imperfezione del processo restituisce un’immagine altrettanto imperfetta.