Se pensiamo a una storia di malavita che rompe con i canoni del genere, o meglio, che orchestra abilmente più generi, non possiamo non citare Carlito’s Way di Brian De Palma. La parabola “autodistruttiva” di un uomo che vuole ritirarsi, uscire dal giro, intravedendo negli affetti una possibilità di salvezza. Una storia che intraprende una direzione tragica, perché l’unica via di fuga praticabile è la morte. I lacci non si spezzano, per citare il film di Daniele Luchetti visto lo stesso giorno, se non pagando un prezzo molto alto, talvolta, come è giusto nelle storie di gangster, definitivo. Night in Paradise, dello sceneggiatore e regista sudcoreano Park Hoon-jung, presentato fuori concorso alla 77esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, ci racconta di Tae-gu, un affascinante antieroe, capace di combinare la spietatezza dei killer più feroci, vere e proprie macchine di morte senza sentimenti, con le preoccupazioni di un uomo comune di fronte alla salute precaria della sorella, e l’imbarazzo divertito suscitato dalla maniera ludica con cui la giovane nipote gli ricorda di essere un gangster. “I bambini sanno tutto” lo ammonisce la sorella, mentre lo spinge fuori a calci dall’auto in aeroporto, lamentandosi delle sue smancerie.
La presentazione del personaggio, con cui empatizziamo immediatamente, ci dice già che qualcosa non quadra. Poco dopo infatti apprendiamo che la vita della sorella è in pericolo a causa di una malattia (altro tema che torna nella storia: personaggi che devono morire, la cui morte viene anticipata grazie a uno spargimento di sangue o che viene posticipata, quando lo spargimento riguarda tutti gli altri). Ma ecco che la sceneggiatura inizia con i suoi ribaltamenti: la morte giunge prima del previsto e in maniera del tutto inaspettata. La sorella e la nipote sono vittime di un incidente, quello scatenante, da cui parte un giallo di vendette, dove le vittime sono gli ingranaggi e i vincenti i traditori, gli uomini deboli e corrotti, gli equilibri tra gang decisi a tavolino. Questo almeno per buona parte del film, prima che si abbatta su tutti, senza distinzione, la furia della giustizia finale, che svela anche il vero protagonista della storia. Esiste un codice d’onore da rispettare per essere dei buoni gangster? Certamente sì, sempre lo stesso: non tradire i propri uomini, la propria “famiglia”.
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Ed è così che Tae-gu viene “venduto”, nel momento in cui la giustizia privata diventa la risposta obbligata di una raffinata strategia di manipolazione, quando cioè gli viene fatto credere che dell’omicidio della sorella e della nipote sia responsabile l’uomo che sta al vertice della gang rivale. A questo punto capiamo che non si salverà, nonostante le prove incredibili a cui viene sottoposto nelle scene d’azione (l’inseguimento in automobile in testa, dove emerge ancora una volta tutta la maestria del cinema orientale), che si rende necessario il passaggio al dramma o melodramma per riuscire a caratterizzare meglio i personaggi, fornendogli uno spesso emotivo che oltrepassa etica e morale, mettendo lo spettatore di fronte ad una riflessione esistenziale inconfutabile. È proprio quando rimaniamo soli al mondo che non ci piace la solitudine, che nel corso del nostro viaggio scopriamo la capacità di connetterci intimamente con altri esseri umani che condividono il medesimo destino.