Viaggiare è un’esperienza esistenziale e spaziale assai complessa, connessa alla locomozione. Un vero e proprio mestiere del cambiamento di forma, che ci consegna all’alterità. Intesa come confronto con l’Altro e trasformazione della nostra stessa identità. Secondo Eric J. Leed la dialettica movimento-insediamento ha portato alla formazione delle società umane, che originariamente nomadi si sono territorializzate. Esiste quindi una sorta di rimosso nell’inconscio dell’umanità. Un bisogno mentale e fisico del movimento. Lo scrittore britannico Bruce Chatwin, nel documentario a lui dedicato dal maestro del cinema tedesco Werner Herzog, Nomad: In The Footsteps Of Bruce Chatwin, presentato nella Selezione ufficiale alla 14/ma Festa del Cinema di Roma, si domanda la ragione della sua irrequietezza in relazione alla condizione stanziale. Perché gli uccelli migrano? Perché anche noi sentiamo l’esigenza di partire, vagare e tornare? Forse perché siamo ancora meravigliosamente moderni? Verrebbe da pensare. Non è infatti la volontà degli dèi a decretare l’abbandono della casa e degli affetti familiari, non sono le sofferenze dovute al nostro rapporto asimmetrico col destino a renderci cantori, c’è più un richiamo al topos dell’eroismo del cavaliere solitario medievale, un atto volontario di mettersi alla prova e di andare incontro alla paura.

Un bisogno di quella libertà ascetica e disciplinata che si matura in relazione all’incontro col mondo. Siamo persone moderne, ci impadroniamo del fuori attraverso uno sguardo passante. Ecco allora che la relazione col cinema diventa immediata. Prima la ferrovia, poi quel mondo lontano che si oggettiva in immagini luminose nel buio di una sala. Un’epifania che è ancora possibile, quando a ripercorrere la vita nomade di Chatwin, i suoi luoghi della memoria, è l’amico Herzog, che attraverso il cammino procede quasi ad uno scavo archeologico nella mente dello scrittore-viaggiatore. Immaginando di far scorrere un mappamondo sotto le nostre dita, puntiamo la Patagonia. Herzog comincia la sua storia in maniera spiazzante. Da un ricordo, conservato in una vetrinetta di famiglia: una presenza esotica, inspiegabile, motivo di grande curiosità per Bruce bambino. Una pelle di Milodonte, un mammifero estinto, ma che viene scambiato per un brontosauro, nell’immaginario collettivo decisamente più familiare, riportata da un antenato, le cui ossa vengono conservate in un museo. Si affacciano alla memoria, anche se di Storia si tratta, quei traffici per mare, quegli scambi mercantili che ci hanno consegnato l’attuale società globale di viaggiatori che, disposta a dimenticare il valore di una nave naufragata in Punta Arenas, fa del mito dell’esplorazione una tappa nell’affollata geografia della giornata di un turista. Che sosta e si fa fotografare proprio nella grotta in cui viene ritrovato il Milodonte.

https://www.youtube.com/watch?v=poB-gZdL9ig

Così racconta Karin Eberhard, figlia dell’esploratore tedesco Hermann Eberhard a cui è attribuita la scoperta di resti preistorici al monumento naturale Cueva del Milodón. Suddiviso in otto capitoli, il documentario è anche un viaggio nell’anima, in quella di Bruce Chatwin, morto di AIDS nel 1989, in quella di Herzog, grande sostenitore delle proprietà taumaturgiche del cammino e in quella del Mondo, dei suoi paesaggi, come dimostrano gli effetti del magnetismo delle pietre del sito archeologico risalente al Neolitico di Avebury, nella contea inglese dello Wiltshire (il nome di questo capitolo è Landscapes of the soul). O i rituali de Le vie dei canti degli aborigeni australiani, per i quali l’abbandono della tribù di appartenenza coincide con un viaggio iniziatico necessario alla scoperta e al ricongiungimento con gli antenati totemici, le cui peregrinazioni hanno tracciato una geografia spirituale che rivela, a chi la percorre, la segreta armonia della Creazione. Non si tratta dunque di un documentario biografico ma di un ritorno ad un’esistenza nomade, attraverso il pensiero e l’esplorazione dell’ignoto, del lontano ma anche del vicino, del ricordo di un uomo.

Bruce Chatwin.

Una riflessione sulla fragilità dell’essere umani, una specie destinata (forse) a scomparire come altre prima di noi. Eppure la nostra peculiarità è rappresentata dalla volontà di lasciare un segno, attraverso la scrittura, il cinema, l’incontro di spiriti affini nell’arte come dimostrano le immagini di Cobra Verde (Werner Herzog, 1987), tratto dal romanzo Il viceré di Ouidah di Chatwin, il quale volle strenuamente visitare il set del film, nonostante il progredire della malattia, per riempire di appunti una sceneggiatura che non consegnò mai all’amico. L’emozione riempie lo schermo, alla vista di quelle pagine per la prima volta, facendo da ponte con un altro momento, nel documentario e nella vita, in cui il cinema ha rappresentato quella soglia, quel lungo cammino, che separa l’esistenza terrena da quel dopo, di cui non vi è certezza. La visione di Wodaabe – I pastori del sole (Werner Herzog, 1989), dedicato alla tribù nomade, di allevatori di bestiame, che si muove nell’Africa sub-sahariana, fa da contraltare agli ultimi giorni della vita di Chatwin. A quella richiesta disperata rivolta a Herzog di porre fine ai suoi turbamenti. Del resto, se di viaggio si parla, non esiste passaggio più misterioso e sublime della morte, l’unica soglia in cui il ritorno e la partenza coincidono, traghettandoci dal sonno ad un cammino di luce.

 

Recensione pubblicata su Artribune.