Cultura del consumo e consumo di cultura oggi fanno tutt’uno, riformulando l’appartenenza su basi largamente extraterritoriali e a partire dalla forza mitopoietica di media e brand, le cui narrazioni conferiscono significato e organizzano non solo lo spazio dell’immaginario, ma anche quello del reale. La città, come ricorda Eleonora Fiorani, non si dà senza nessuno che la racconti, che ne offra una descrizione-immagine che fa tutt’uno con la sua costruzione (Fiorani Eleonora, La Nuova Condizione di Vita, pag.129-130): “la città è il corpo senz’organi della macchina della scrittura” (Guattari Félix, in Controspazio, n.17, 2005), poiché il primo apparato collettivo che permette la rappresentazione è la lingua. In questo senso la configurazione urbana sottende sempre la scrittura per immagini che, provenienti da diversi territori mediali – dalla letteratura alla stampa, dalla pittura alla fotografia, dal cinema alla televisione, dalla pubblicità ai videoclip, dai fumetti ai videogiochi, dalla realtà virtuale alle scansioni satellitari – e oltre a questi, da altre discipline, come: architettura, urbanistica, design, grafica, sociologia, antropologia, etnografia, mercato – con i loro linguaggi, estetiche e visioni dello spazio e del tempo -, ne rendono più complessa la trama. La quale si configura come un tutto pieno e un cumulo di frammenti e situazioni.
Un’interfaccia, una griglia che tiene insieme e in sé spazi-tempi giustapposti e concatenati: immagini-tempo, immagini-spazio, immagini-parola, immagini compatte, sognate, misurate, tagliate, compresse, osservate e che hanno la proprietà di essere in relazione le une con le altre e con tutti i luoghi. La metropoli contemporanea è un’eterotopia: un incontro di flussi deterritorializzati. Plug-in-City: territorio connesso e struttura informatica; matrice, portatrice del germe di un nuovo principio di ordinamento e composizione: il movimento. È insomma una città che a partire dalla circolazione dei flussi diviene scenario, luogo neutro, punto zero per nuove progettazioni aperte ai più diversi esiti – spettacolo, eventi, sperimentazioni e simulazioni -, e junk-space: come ciò che resta della modernizzazione. Al suo interno però gli spazi dell’autorità non vengono meno e anzi la loro lettura appare sempre più chiara, nonostante l’iper-complessità che li caratterizza. Sono zone di immunità ridotte a luoghi ben progettati, sorvegliati e con una loro caratterizzazione, che testimoniano della trasformazione della società a partire da un paradigma secessionista.
Tutto ciò riguarda la rivoluzione informatica, la globalizzazione tecnologica, che ha ridefinito le coordinate dell’essere al mondo e con esse le relazioni di vicinanza e lontananza in nome dello sradicamento dall’esperienza storica e dalla specificità culturale, alle quali fanno ora da corrispettivo formale la museificazione, il collezionismo e il riciclaggio. Quest’ultimo come testimonianza della rapidità di consunzione di ogni simbolo e segno del progresso, della necessità di recuperarlo ancora prima che sia passato. Il nuovo che eccede, immediatamente obsolescente quanto presente, è nostalgia del futuro: patina, polvere elettronica, che consegna le cose a una affettività “impura”, figlia di una memoria mediaticamente condivisa. Memoria come Altro dalla Storia e dalla sua pretesa di veridicità scientifica; come sguardo relativista sul tempo; intreccio di mitologie e informazioni personalissime, che assumono la forma del jumpcut: pratica di selezione e montaggio di temi, conoscenze, vissuti e esperienze, orchestrati in base alle derive teatral-tecnologiche della soggettività. In questo processo di costruzione dello spazio individuale, storico e sociale, grande rilievo è rivestito dai mediascapes, che uniscono esperienze, marketing e consumo, e sono paesaggi di immagini – che connettono reticoli locali, globali, delocalizzati, glocali – intorno ai quali si strutturano universi simbolici condivisi e si producono stati di realtà e vissuti intersoggettivi.
Immaginari collettivi, coi quali confrontarsi, che animano sogni, speranze, incubi e muovono all’azione, alle emigrazioni, alle rivolte non meno che al consumo e spingono a fare comunità, tessendo relazioni rizomatiche. Ciò che ne deriva sono nuove forme della socialità, costellazioni indeterminate di traiettorie, comunità rette dalla logica delle identificazioni e dalla rilevanza della dimensione estetica, in cui centrale è la visibilità, come pre-requisito della vita in relazione. La pubblicità, come parola pubblica che assicura coesione del corpo sociale e familiarità. Per questo motivo si dice che, nell’attuale mondo della comunicazione, dove tutto comunica ed è comunicazione, la moda sia la maniera d’essere (e quindi di essere insieme) del contemporaneo, forma ludica della socialità, condivisione effimera e modo di abitare la modernità, del suo andare sempre oltre se stessa, senza mutare. Finché infatti scienza e capitale funzionano come principi regolatori del vivere associato vale ancora la modernità, la quale anzi si dissemina su scala globale, grazie ad una evoluzione tecnologica senza precedenti che, paradossalmente, mette seriamente in crisi la visione progressista illuminista e stimola una sorta di regressione, che è nel contempo ritorno a uno stato di aggregazione pre-sociale (neo-tribalismo) e recupero della metafora del cacciatore-raccoglitore, con la quale identificare il rabdomante informatico o, più in generale, il nomade contemporaneo e il suo surfare tra mondi.
Mondi che, usciti dai territori della mente e abbandonate le utopie degli universi paralleli, si trovano gli uni dentro gli altri come nelle illusioni escheriane. Si assiste così alla presenza in Second Life, mondo virtuale creato dalla Linden Lab – che come tanti altri Active World si rifà alle suggestioni del metaverso di Snow Crash, romanzo di Neal Stephenson e del movimento letterario cyberpunk – e game online con ben 2.073.216 residenti e con una propria moneta (il Linden Dollar) convertibile in dollari statunitensi (e viceversa), di nomi di spicco dell’economia, tra cui: Intel, IBM, Nike, Toyota, Amazon, Reuters, MTV, con propri spazi per il consumo e l’intrattenimento; nonché di una banca, la Ginkgo Financial, con tassi di interessi annuali di gran lunga superiori a quelli reali, che comportano una condizione monopolista difficile da regolamentare e che palesa ricadute significative sull’economia planetaria.
Del resto già in William Gibson l’architettura della realtà virtuale è immaginata come una concrezione di sogni: “laboratori di tatuaggio, baracconi di tiro a segno, sale di videogiochi, bugigattoli debolmente illuminati, stipati di annate di riviste per soli uomini macchiate di umidità, piatti di chili, studi odontotecnici e pirotecnici senza licenza, banchi di allibratori, fornitori di materiale pornografico, banchi di pegno, ristoranti cinesi, carretti di hot-dog, alberghi a ore, fabbriche di frittelle, fruttivendoli cinesi, rivendite di liquori, erboristerie, chiropratici, barbieri, bar. […] sogni di commercio. Su cui crescono quartieri intricati, zone di fantasie più private” (Gibson William, in Benedikt Michael, Cyberspace, pag.28) – e il cyberspazio come “un’allucinazione vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori legali, in ogni nazione, da bambini a cui vengono insegnati i concetti matematici […]. Una rappresentazione grafica di dati ricavati dai banchi di ogni computer del sistema umano […]. Linee di luce allineate nel non-spazio della mente, ammassi e costellazioni di dati. Come luci di una città, che si allontanano” (Gibson William, Neuromante, pag.52); ossia un mondo che non consiste più solo di un ambiente fisico, di una natura trasformata dalla presenza materiale dell’uomo, ma che si dispone in una pluralità di livelli – senza gerarchie né punti di riferimento stabili – tra i quali il gioco delle soggettività e la gestione dei loro intrecci comporta nuove politiche di vita.
Sogni, allucinazioni, pulsioni, desideri, tanto ordinari quanto triviali, e bisogni sono il fondamento, la spinta e la forma che assume il viaggio nelle reti, il cui statuto plurale e mutante fonda nuovamente spazi e luoghi del quotidiano, sempre più transitorio, cangiante, esso stesso mutante e distopico. L’ambiente metropolitano, con i suoi flussi, i suoi commerci, le sue porzioni che subiscono sempre nuove territorializzazioni, ne raccoglie la logica caotica e ricombinate, testimoniando la sua trasformazione cyberspaziale. In esso, lo spazio Altro (nel senso di “universo parallelo”: concetto cardine dell’immaginazione fantascientifica e del suo operare, che connette più media, fonti e visioni, provenienti da: realtà, pubblicità, cinema, fumetto, luoghi di fantasia, teorie scientifiche, fatti di cronaca, utopie architettoniche, storia, antropologia, economia, sociologia, centri di ricerca aero-spaziali), che tiene in sé tutte le visioni del passato, del presente e del futuro e le loro possibilità, è reale: attualizzato da coscienze esteriorizzate e movimenti corporei, e ‘ricucito’ dai liquidi del corpo stesso (in William Gibson è il sudore di Case a ‘cucire’ la frattura tra matrice e realtà, a tal punto che il suo correre attraverso Ninsei: “era come correre nella matrice. Bastava logorarsi un po’, trovarsi coinvolti in qualche tipo di guaio disperato ma stranamente arbitrario, ed era possibile vedere Ninsei come un campo di dati”; Gibson William, Neuromante, pag.19).
Un corpo che abita immergendosi e mostrando la sua sofferenza nei confronti dello sguardo e il suo desiderio di rinnovata tattilità e volontà partecipativa. Un corpo medium, un corpo interfaccia, plasmato dalla tecnologia e dai mezzi di comunicazione elettronici, dal loro consentire connessione, interazione, coinvolgimento sensoriale pieno, immersione, condivisione. Costruzione di un’architettura sociale trans-forme e cinetica, fatta di punti di vista, punti-di-stato e punti di accesso, in cui l’uomo che vede (moderno) diviene l’uomo partecipante (postmoderno), in grado di oltrepassare isolamento e risoluzione del mondo in immagini e approdare a una dimensione pulsante, metamorfica, fluida, evanescente. Un uomo che seguendo l’allucinazione cyberspaziale si dimostra incline alla smaterializzazione della realtà, incapace di coglierne semplicemente le forme e desideroso di esplorare interazioni e paesaggi interiori, che trasformano la natura delle superfici stesse in membrane, schermi, suoni, arie, odori, fumi, colori, luci, sensazioni, visioni.
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.