Vivere tra due mondi. Oggi sembra la normalità. Un’eventualità da esaltare, rendere ancora più plurale. Le frizioni ci inebriano, i contrasti ci seducono, la monodimensionalità appare come il più temibile dei mali. La non scelta, la possibilità di abitare transitando, non senza gerarchie o sofferenze, è una condizione esistenziale da cui spesso abbiamo imparato a trarre il meglio.
Ed è passato circa un secolo, da quei ruggenti anni Venti del Novecento, tempo anche di Proibizionismo, che sono il retroterra culturale e il tempo storico di Passing, esordio alla regia dell’attrice Rebecca Hall, che firma anche la sceneggiatura, presentato nella Selezione Ufficiale della Festa del Cinema di Roma e che si potrà vedere in streaming su Netflix dal 10 novembre. Adattamento dell’omonimo romanzo del 1929 di Nella Larsen, il film racconta del complicato rapporto tra Irene Redfield (Tessa Thompson) e Clare Kendry (Ruth Negga), due donne di colore, o più precisamente dal sangue misto, che in seguito ad un incontro casuale, durante una calda giornata estiva newyorkese, sono costrette a confrontarsi, andando sempre più a fondo, con la propria identità di meticce, in un contesto dominato dal razzismo e dalla supremazia bianca. Due personaggi opposti, come la fotografia di Eduard Grau sottolinea presentando i loro ambienti: sovraesposta, al limite del bruciato nell’appartamento di Clare, come nel bar dove avviene il loro incontro; sottoesposta, con un rapporto di chiaro-scuri molto liquido, tendente ad accentuare la presenza delle ombre, nella casa di Irene ad Harlem e alle feste che organizza in qualità di attivista per la causa della comunità afroamericana.
Questa distinzione però non è funzionale solo a sottolineare il loro differente carattere: vitale e aperta Clare, più schiva ed esitante Irene, bensì identifica quella condizione di indeterminatezza che consente a entrambe, l’una all’occorrenza (Irene), l’altra per scelta di vita (Clare) di passare per bianche. La conversazione col marito di Clare, il banchiere John (Alexander Skarsgård), la sua precisazione “Io odio i negri”, che fredda Irene e vede complice Clare, attraverso una risata isterica, mentre lui la definisce “ancora più razzista”, è sintomatica di quanto accadrà di lì a poco, fino al tragico epilogo. Clare vuole ricongiungersi con le proprie origini, non tollera più la menzogna, vuole essere scoperta, è attratta, quasi si trattasse di una nuova forma di esotismo, dalla comunità nera, dai balli sfrenati, dalla libertà che si respira alle feste, dalla possibilità di essere finalmente se stessa. L’ingresso improvviso, insistente nella vita di Irene, non è privo di conflitti: l’attrazione omosessuale velata, quanto esplicita, che provano l’una per l’altra, la gelosia nei confronti del marito Brian (André Holland), che pare rapito da questa bellissima donna dalla pelle candida, pur cercando di nasconderlo, l’essere costretta a confrontarsi a sua volta con l’orgoglio, non sempre incrollabile, di essere nera. Il rapporto con l’identità razziale, infatti, non è facile neppure per Irene che, se da un lato non vuole abbandonare New York, la sua condizione di privilegio come parte della borghesia nera, dall’altro ammonisce Brian quando parla dei linciaggi ai figli, come se volesse creare per loro un mondo alternativo, senza violenza, ma finto al pari di quello di Clare.
La Hall, che ha alle spalle storie analoghe nella propria famiglia e quindi sente in prima persona il peso del conflitto, fa abbondante uso di non detti e sottotesti, di silenzi poetici, ritrosie (Irene che si nasconde sotto il capello a tesa larga all’inizio del film, per non dare nell’occhio in un quartiere di bianchi) e incidenti improvvisi (la teiera che cade al suolo, la mano che sta per cingere un corpo alla finestra, prima che la neve inabissi la tragedia nel silenzio), di poche note di piano (grazie al bellissimo lavoro sulla colonna sonora di Devonté Hynes) per squarciare lo spazio psicologico, intimo ed emotivo delle due donne, tra protagonismo e antagonismo, annullando la distanza dello spettatore che, da un lato si confronta con un’opera di rara ricercatezza formale, estetica in senso pieno, dall’altro non può venire meno all’identificazione, perché Passing non parla semplicemente della razza come costrutto ideologico, e quindi della necessità di demolirlo, ma di identità: rimossa, cercata e ridiscussa, ponendosi come una delle più inaspettate e intriganti visioni (non senza imperfezioni, tra cui forse l’eccessivo irrigidimento concettuale della polarizzazione) di questa edizione della Festa del Cinema.