Esce sulla Other People di Nicolas Jaar il nuovo album solista del chitarrista e producer newyorkese, che racconta attraverso il linguaggio della musica di un mondo digitale dove politica, erotismo e violenza si incontrano e scontrano. Lo abbiamo intervistato per conoscerlo più da vicino.

V: Mi piacerebbe partire dal tuo background, non solo musicale. Ho letto che hai studiato alla Columbia University, filosofia e letteratura comparativa. Hanno avuto su di te qualche influenza da un punto di vista culturale, metodologico o concettuale?

PH: Assolutamente sì. Credo che siano state importanti per definire il modo in cui mi relaziono col mondo e quello di avvicinarmi all’arte e alla musica. Sono sempre stato interessato ad analizzare la modalità attraverso cui l’essere umano comprende ciò che gli sta intorno, si organizza e trova un modo per esprimersi nella relazione tra politica e arte.

V: Il tuo ultimo album affronta il tema del mondo digitale. In particolare focalizza l’attenzione sulla sua dimensione erotica e violenta. Per quale motivo? Personalmente oggi lo considero esclusivamente alla stregua di uno strumento di marketing.

PH: Internet nasce come una piattaforma in cui pubblicare, scambiarsi idee, comunicare. In parte ha subito un processo di privatizzazione perchè è diventato il canale privilegiato per vendere prodotti. Facebook e Instagram si sono trasformati in una vetrina per pubblicizzare se stessi. Quindi da un lato c’è questa enfasi posta sulla visibilità e sul rendere pubblico parte del proprio privato, dall’altro c’è il discorso delle relazioni invisibili, di ciò che si condivide dietro la superficie. Mi interessava realizzare un pezzo di musica con questa struttura, dando l’idea di navigare attraverso questa mappa di relazioni nascoste.

V: Perchè l’hai chiamato Dossier?

PH: Per diverse ragioni. Prima di tutto il dossier è un file che racchiude un insieme di informazioni relative a una persona, che possono avere anche un funzione investigativa. La partecipazione all’universo di relazioni sociali ed economiche in rete, costituisce un dossier. Poi c’è una ragione politica. Quando Trump è stato eletto presidente, hanno cominciato a girare delle voci secondo cui il governo russo avesse un dossier su di lui, contenente informazioni che potessero incriminarlo anche di natura sessuale.

V: Passiamo alla composizione. Ho ascoltato le quattro tracce dell’album e mi sono chiesta se si trattasse di quattro pezzi distinti o altrettanti movimenti di un unico pezzo.

PH: Il modo il cui disco è stato concepito prevede quarantacinque minuti di musica, in quattro movimenti. Quindi si tratta di un singolo lavoro, ma credo che le tracce possano funzionare anche in maniera distinta.

V: Dove l’hai registrato?

PH: L’ho registrato in una singola perfomance a Future Past, il mio studio a New York.

Dossier, Patrick Higgins. Artwork: Alfredo Jaar.

V: Ti ho fatto questa domanda perchè ho pensato ad un tuo precedente lavoro, Bachanalia, che è stato registrato in due Chiese a New York. Che cosa pensi della relazione tra tempo, spazio e musica?

PH: Credo che sia inevitabile, soprattutto nella pratica, interrogarsi sulla maniera in cui il suono interagisce con lo spazio in cui si diffonde, su come si sente. Quando registri sei molto attento a carpire ogni minimo movimento, cosa includere o escludere è una decisione artistica. In questo disco volevo ottenere un suono il più artificiale possibile, quindi non ho realizzato la perfomance in uno spazio ampio o in una grande sala di registrazione. Tutte le caratteristiche audio della traccia sono arrangiate in stereo. C’è una forte correlazione con uno spazio artificiale. Mentre in Bachanalia ho interagito con uno spazio acustico.

V: Inizialmente abbiamo parlato del tuo background culturale, qual è invece quello musicale? Quando hai iniziato a suonare la chitarra? O ti sei avvicinato alla musica classica contemporanea?

PH: Ho cominciato a fare musica da molto giovane, a studiare pianoforte intorno ai sette anni mentre intorno ai nove-dieci sono passato alla chitarra. Quand’ero bambino suonavo musica punk rock e quando sono andato alle scuole superiori ho cominciato a studiare jazz in maniera molto seria, pur continuando a suonare punk e hardcore. Il jazz ha influenzato il mio modo di suonare cose più underground. Quando sono andato al college ho sviluppato un interesse verso la musica d’avanguardia e la classica contemporanea, è stato un modo per riconciliare il mio background jazz e punk rock.

V: Chi sono i tuoi “eroi” musicali?

PH: Tutti coloro che hanno cercato di combattere il conformismo nel loro tempo, come Bach o Beethoven, che oggi percepiamo come classici ma che hanno fatto cose molto avanti rispetto ai loro contemporanei. Un altro importante riferimento sono gli ultimi lavori di John Coltrane che ha ispirato un’intera generazione di musicisti e il movimento free jazz e spiritual jazz. In generale gli artisti che mi ispirano sono quelli che cercano sempre di superare i limiti, di forzare sé stessi nel mettere in discussione ciò che è accettato.

V: Alcuni anni fa ho avuto l’opportunità di intervistare Oren Ambarchi e lui mi ha rivelato che la persona che aveva completamente cambiato il suo approccio alla musica era stata Keiji Haino. Qualche tempo dopo, a Berlino, sono riuscita a intervistare anche lui e ho capito perchè ci fosse una correlazione tra due musicisti così diversi, lontani nello spazio e nel tempo.

PH: Sì capisco benissimo. Nel mio caso tra i compositori contemporanei che sono stati importanti per il mio percorso e lavoro ci sono l’ungherese György Ligeti, Maryanne Amacher, Paoline Oliveros, anche la scuola viennese che ruota intorno ad Arnold Schoenberg e i suoi primi discepoli tra cui Anton Webern e Alban Berg, poi mi sono avvicinato a musicisti come John Coltrane.

Patrick Higgins.

V: Torniamo un momento a Bachanalia. Perchè hai scelto di reinterpretare Bach? Trovi delle somiglianze con lui come compositore?

BH: No, somiglianze non direi, ma mi affascinano i compositori e gli artisti che sono capaci di mettere in discussione e riconfigurare delle posizioni acquisite all’interno di un campo, in questo caso la musica, trasformandolo. Bach è diventato una sorta di padre e madre della musica classica, e il suo lavoro è stato interpretato in maniera molto tradizionale, attraverso perfomance classiche. Non voglio disprezzare quell’approccio, però credo che abbia contribuito a fissare la sua produzione in una forma immutabile, finita. Il mio interesse per la sua musica invece parte dal bisogno di comprendere quanto per lui l’improvvisazione giocasse un ruolo fondamentale e quanto spesso si fosse trovato a scrivere musica senza assegnarla a uno strumento specifico. Il suo lavoro si fonda su un principio di grande apertura e sulla possibilità di riutilizzarlo in maniera differente, in situazioni differenti. Per questo credo che provare a fornire una visione nuova di un compositore entrato a pieno titolo nell’establishment, sia stato molto stimolante.

V: Nel 2016 hai realizzato una performance multimediale a Pioneer Works a New York, in collaborazione con la visual artist Tauba Auerbach e con l’architetto Alexander Arroyo. Svariati musicisti non amano far incontrare la musica con altri linguaggi, perchè li considerano, soprattutto quello visivo, una distrazione rispetto all’ascolto puro. Cosa ne pensi?

PH: Non credo che la musica, da un punto di vista ideologico, debba essere pura o presentata come tale. Anzi, ritengo che sia impossibile, esattamente come affermava John Cage, ottenere il silenzio. Ci saranno sempre delle condizioni ambientali o legate al fattore umano, che offuscheranno questa pretesa di purezza. Quindi l’integrazione o l’intersezione della musica con altri media va presa in considerazione, in un modo che non sia semplicemente spettacolo, ma che contribuisca ad ampliare ed arricchire l’esperienza percettiva. Per quanto riguarda la perfomance a Pioneer Works, Tauba Auerbach e Alexander Arroyo, condividevano con me questo approccio ed è stata una grande opportunità di collaborazione crossdisciplinare, che nella musica non si verifica frequentemente. Soprattutto, l’idea di creare un ambiente ad hoc, un’architettura, anche se effimera, in cui la musica potesse inserirsi ed essere suonata. Solitamente la musica viene confinata su un palco, mentre costruire un micromondo, in cui il mio lavoro potesse essere presentato in una maniera differente, è stato molto entusiasmante.

V: Musica e cinema. Come vedi questo incontro?

PH: Nel realizzare una colonna sonora penso che l’aspetto più interessante per un musicista che lo faccia in maniera episodica, quindi non come lavoro, sia lo stesso che si prova di fronte a una performance multimediale. Avere l’opportunità di mettere a frutto le proprie conoscenze e la propria visione, per supportare un progetto narrativo. Allo stesso tempo, può essere un’occasione per mettere da parte il background di studi, le ambizioni relative allo stile e tutto il tecnicismo che normalmente riveste una grande importanza in una perfomance live, lasciando emergere l’espressività. Per me, quindi, realizzare una colonna sonora ha a che fare con questo doppio legame, tra il compositore e il regista.

V: Pensi che la musica possa essere narrativa?

PH: Assolutamente sì, credo però lo faccia diversamente rispetto alla forma narrativa tradizionale. La musica invita l’ascoltatore a entrare in un mondo e tempo specifici, provocando una sorta di space-shifting, che sospende il tempo della vita quotidiana. Due o tre minuti di musica possono accendere la fantasia dell’ascoltatore o provocare in lui un’intensa esperienza mentale e fisica. L’esperienza narrativa che si fa attraverso la musica è più libera, meno prescrittiva di quella che si può fare attraverso la letteratura o il cinema. La musica ha un modo di narrare più aperto e che conduce a un’avventura più soggettiva.

V: Quanto di te stesso finisce nella tua musica?

PH: In buona parte del mio lavoro c’è una grande attenzione per l’organizzazione tecnica, il rigore, che credo facciano emergere una forma di espressività personale. Ciò che mi affascina delle possibilità narrative della musica, specialmente quando mi concentro sulla parte strumentale, è l’idea della rimozione di un ego specifico. Non nel senso di arroganza, bensì di personalità. Penso che nella mia musica ci sia una forte spinta espressiva, ma nutro la sincera speranza che l’ascoltatore possa, attraverso le situazioni ambientali che ricreo, provare il più ampio spettro di esperienze possibili. Quindi c’è molto del mio approccio filosofico e del mio modo di relazionarmi al mondo.

 

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