Presentato in anteprima nazionale alla 13esima Festa del Cinema di Roma, Green Book è la storia di un viaggio negli Stati del Sud compiuto dalla leggenda del jazz Donald W. Shirley in compagnia del suo autista italo-americano Tony ‘Lip’ Vallelonga. Sarà al cinema con Eagle Pictures il 7 febbraio 2019.
Nel 1940 Richard Wright con Paura entra nella testa e nel cuore del “negro bruto”, cercando di spiegare come il razzismo e le umiliazioni subite siano diventate parte di una seconda Natura, votata alla violenza. Circa un decennio più tardi anche Ralph Ellison con Uomo invisibile prende le parti della popolazione nera più aggressiva e disillusa, che ritorce contro l’America bianca, secoli di soprusi e assoggettamento psicologico. Due titoli che hanno influenzato il cinema degli Anni Novanta (lo stesso Fa’ la cosa giusta di Spike Lee, del 1989, prende spunto da Paura), ma che si pongono in aperta controtendenza rispetto agli autori in voga nel loro periodo, fautori dell’idea di un “nuovo negro”: sofisticato, colto e capace di assimilarsi senza difficoltà all’interno della società americana. Potremmo dire che questo è il retroterra culturale di Green Book di Peter Farrelly (con sceneggiatura di Nick Vallelonga, che ripercorre le memorie di suo padre) che, alla regia per la prima volta senza il fratello Bobby, firma una commedia colta, raccontando il dramma e il viaggio di Don Shirley (Mahershala Ali), aristocratico e talentuoso pianista newyorkese di origini giamaicane, lungo la Mason-Dixon e gli Stati del Sud, in compagnia dell’italo-americano del Bronx Tony “Lip” Vallelonga (Viggo Mortensen).
Una sorta di A spasso con Daisy, il comedy-drama diretto da Bruce Beresford nel 1989, con Morgan Freeman e Jessica Tandy, con i ruoli invertiti: autista bianco e passeggero nero. Citazione non casuale, perché si tratta in entrambi i casi di una storia di amicizia – indimenticabile la scena in cui l’anziana Daisy, con un principio di demenza, prende delicatamente la mano di Hoke e con sguardo smarrito sussurra: “tu sei il mio migliore amico” – e di due film che hanno un punto di contatto temporale, laddove comincia la solitudine di Daisy, nel 1962, dopo la morte della sua domestica Idella, Shirley e Tony si mettono in viaggio. Sullo sfondo: la lotta per i diritti civili, la segregazione degli Stati del Sud, le aggressioni della polizia e Martin Luther King. Il titolo dell’opera di Peter Farrelly è un esplicito richiamo al Negro Motorist Green Book, pubblicato tra il 1936 e il 1966, un vademecum per i viaggiatori afroamericani nell’era di Jim Crow e delle sundown towns. L’intolleranza si delinea progressivamente nel film di Farrelly, tappa dopo tappa, sotto gli occhi sempre più compassionevoli di Tony, quando al suo elegante passeggero vede rifiutare la cena nel ristorante dove deve tenere un concerto, gli viene assegnato uno sgabuzzino al posto di un camerino, viene picchiato in un bar, vengono fermati e incarcerati dalla polizia e quando si trova costretto a consultare il Green Book, per trovargli una sistemazione per la notte “tra la sua gente”, in un motel dove la parola negritudine è esclusivamente sinonimo di povertà. Il talento di Shirley, le sue buone maniere, le sue relazioni nell’alta società valgono il tempo di un applauso. Una volta sceso dal palco i confini sono invalicabili, i sorrisi e le strette di mano con il volto tumefatto, reso presentabile dal trucco, diventano una via crucis dolorosa e necessaria.
La Cadillac turchese è il “corpo viaggiante”, il luogo del “fuori luogo” come direbbe Franco La Cecla, in cui il distacco dalla propria matrice sociale, le incertezze e i pericoli del viaggio, spingono ad una trasformazione dell’identità, del sentire, del pensare, e in questo caso, della chimica della coppia. Tony Lip che all’inizio del film getta nella spazzatura i bicchieri utilizzati dai due operai di colore nella sua aperta casa italiana, diventa non solo l’autista e il protettore di Shirley, ma anche il suo più fervido sostenitore, talvolta ricalcando un po’ lo stereotipo del “white savior” contro cui si era già scagliato il cinema di Spike Lee. Don Shirley chiuso nel suo isolamento, nascosto dietro alla sua impeccabile educazione (parla perfettamente più lingue, compreso il russo e l’italiano), irreprensibile nel suo distacco dall’immagine popolare dell’uomo di colore americano (non ascolta Lil Richards, Chubby Checker e Aretha Franklin, non mangia pollo fritto, tanto che Tony dopo un partecipato monologo conclude con: “Io sono più nero di te”), lentamente si apre nel confronto con il suo accompagnatore, personaggio che pare uscito da I Soprano, fino al crollo, che palesa una crisi di identificazione e una mancanza di radici e appartenenza, emersa in seguito all’incremento degli aspetti conflittuali del viaggio, a quel “terreno di riferimenti che si sposta”come direbbe Eric J. Leed e alla rivelazione della sua omosessualità: “se non sono abbastanza nero, se non sono abbastanza bianco, se non sono abbastanza uomo: allora dimmi chi sono io?”. Un impeccabile bilanciamento tra umorismo (l’accento italiano sfoderato da Viggo Mortensen, la prima apparizione di Shirley in stile Il principe cerca moglie, la mimica di entrambi i personaggi, sono divertentissimi) e umanità conduce ad un happy ending. Nella notte di un tipico Natale newyorkese, Shirley incapace di tornare alla sua quotidianità solitaria, raggiunge Tony nella sua semplice e chiassosa dimora. Un abbraccio, segno indelebile di affetto e amicizia, chiude la porta ad ogni intolleranza.
Articolo pubblicato su Artribune.