Composto nel 2016, presentato in anteprima al teatro Volksbühne di Berlino nel 2017 e successivamente alla Ruhrtriennale e Kampnagel di Amburgo, Monophonie non è semplicemente un album ma un progetto artistico e di ricerca, in cui il musicista, DJ e producer tedesco combinando gli strumenti storici di Hermann von Helmholtz (XIX secolo), con quelli microtonali autoprogettati da Harry Partch, con le sculture sonore metalliche di Harry Bertoia, senza dimenticare il proprio approccio elettronico alla musica, dà vita a un universo sonoro guidato dai poliritmi e psichedelico nell’esperienza. L’album esce oggi sulla A-TON e noi l’abbiamo intervistato.
V: Oltre ad essere un producer e DJ di musica elettronica, ho letto che quand’eri molto giovane ti sei formato come violoncellista. Quali esperienze nel corso della tua vita e della tua carriera ti hanno reso il musicista che sei?
PS: È vero. Ho imparato a suonare il violoncello da bambino, poi sono passato alla chitarra elettrica e alla fine al computer e ai campionatori. La mia musica risente molto dell’ascolto degli ambienti e della Natura. Mia madre si sorprendeva sempre quando affermavo cose del tipo: “This train has a nice tuning”, oppure “I don’t like the sound of this room”. Dopo aver suonato in gruppi post-rock e studiato sociologia ad Amburgo, ho frequentato Computer Music and Electronic Media all’Università della Musica di Vienna.
V: Parlando del tuo approccio minimalista, quali sono stati i musicisti di riferimento per il suo sviluppo?
PS: Uno dei miei eroi è senza dubbio Alvin Lucier, il compositore americano che meglio ha saputo percorrere il confine che separa suono e arte concettuale. Lavorando con fenomeni acustici e setting molto semplici è riuscito a ottenere risultati sorprendenti. Un’altra influenza importante è stata Laurie Spiegel, per il suo contributo alle riflessioni teoriche sulle strutture e i pattern. Citerei poi la prima e la seconda ondata dei compositori che hanno lavorato sulla musica microtonale: La Monte Young, Tony Conrad, Terry Riley, Phill Niblock, Arnold Dreyblatt, Kyle Gann e Ellen Fullman, che ha inventato l’incredibile ‘Strumento a corde lunghe’. Dal mondo della EDM menzionerei Jeff Mills, Robert Hood, Luke Slater, Damon Wild e così via. Ho una vasta collezione di Ethnomusical Recordings dello scorso secolo, la mia musica risente molto dell’influenza anche di queste registrazioni provenienti dall’Asia, dall’Africa e dalle regioni Oceaniche. Dietrich Buxtehude, Johann Sebastian Bach e Giacinto Scelsi sono altri riferimenti. Non dimenticherei Robert Ashley. Mentre per quanto riguarda l’improvvisazione includerei: Evan Parker, Fred Frith, Hans Reichel. Si tratta comunque di una piccola parte dei compositori e musicisti che hanno avuto un impatto su di me.
V: Possiamo considerare il tuo album precedente New Atlantis come un tentativo di trovare un bilanciamento tra il dancefloor e la sperimentazione d’avanguardia?
PS: A dire la verità non rientrava nelle intenzioni di partenza. L’incontro delle due identità, Efdemin e Phillip Sollmann, è avvenuto in maniera spontanea. Come in passato avevo cercato di tenerle rigidamente separate, in quest’album le ho lasciate confluire in maniera libera, cercando di combinarle in diversi modi.
V: Passiamo a Monophonie, il tuo ultimo album come Phillip Sollmann, in uscita con la A-TON il 15 maggio 2020. Per approfondire dobbiamo risalire al 2016 quando è stato composto. Mentre l’anno seguente ha avuto un’anteprima al teatro Volksbühne di Berlino. Com’è cominciata quest’avventura e perché?
PS: Ho sempre sognato di scrivere musica per gli strumenti di Harry Partch, che sono molto particolari sia da un punto di vista acustico che visivo. Ero a conoscenza del fatto che l’Ensemble Musikfabrik suonava la sua musica con le repliche degli strumenti originali. Così gli ho proposto una collaborazione. La loro reazione positiva mi ha spinto immediatamente a scrivere musica. Per aggiungere uno spettro armonico e acustico differente, ho introdotto le sculture autoprodotte di Harry Bertoia e la doppia sirena di Hermann von Helmholtz, realizzando di fatto un incontro transcontinentale postumo di tre personaggi molto diversi tra loro, che però si sono occupati di acustica, tuning systems e della costruzione di strumenti.
V: Trovare metodi non convenzionali per generare i suoni è una pratica che riveste un’inedita centralità nella tua esplorazione. Vorrei approfondire questa riflessione in relazione all’utilizzo degli strumenti in Monophonie.
PS: Ho cercato di utilizzare gli strumenti acustici suonati a mano di Harry Partch seguendo il mio approccio, che risente dell’ascolto della musica elettronica. Si tratta di strumenti con un suono assolutamente unico, caldo e fluttuante, capace di trasportarti altrove. Le sculture di Harry Bertoia invece aggiungono un comportamento acustico differente, perché sono costituite da aste di metallo, che quando vengono toccate continuano a suonare per svariati minuti, introducendo una dimensione aleatoria ulteriore al brano. Una progressione casuale naturale.
V: C’è qualche relazione con l’approccio della Neue Musik?
PS: Sono stato influenzato da alcune correnti della Neue Musik, per esempio dal lavoro di Georg Friedrich Haas. Non sono però un compositore che si è formato in modo classico.
V: Ascoltando l’album mi pare di aver individuato tre elementi ricorrenti – la poliritmia, l’oscillazione e il suono della sirena – che definiscono la sua identità. Suppongo che la scelta degli strumenti sia la chiave per ottenere questo risultato. Perché hai scelto proprio questi suoni e come li hai fatti incontrare nelle diverse tracce?
PS: La poliritmia è assolutamente centrale, hai ragione. Volevo creare un organismo complesso ma piacevole, che fosse il risultato delle qualità specifiche e delle possibilità offerte dagli strumenti. Oltre all’aspetto ritmico però anche quello tonale è importante, soprattutto in relazione agli strumenti di Harry Partch. La sirena invece è stata usata una volta sola, nell’ultima traccia, suonata da me. Ha un suono fluttuante e psichedelico, grazie al frequente cambiamento di pitch. Non avevo molta esperienza pratica nel suo utilizzo, ma è stato illuminante e travolgente suonare uno strumento che ha solo otto notte e che viene azionato dal vento.
V: C’è qualche differenza tra l’album e la perfomance?
PS: Quest’album è una versione ibrida, che mixa elementi di studio e live. Cosa che gli conferisce una qualità specifica, che non avrei potuto raggiungere utilizzando esclusivamente il computer o attraverso una perfomance 100% live.
V: Perché hai scelto di lavorare sulla microtonalità?
PS: La musica e gli strumenti di Harry Partch utilizzano uno specifico sistema di accordatura, che lui ha sviluppato negli anni. Questa è la ragione del loro suono molto peculiare. Quindi non ho avuto scelta, ho potuto solo lavorare seguendo la logica microtonale di Partch. Una sperimentazione che mi ha aiutato ad espandere la mia conoscenza in questo campo, tanto che continuo a utilizzare questo approccio (anche senza i suoi strumenti) nella mia musica ancora oggi.
V: È stata la prima volta che hai composto musica per un Ensemble?
PS: Sì, è stata un’esperienza stimolante e che mi ha permesso di imparare molto. Lo scorso anno mi è stato commissionato un altro progetto, che prevedeva di scrivere musica per il Zafraan Ensemble di Berlino. Un’altra grande occasione.
V: Vorrei analizzare con te alcune tracce, in relazione agli strumenti che hai utilizzato. Cominciamo con la prima: Chance, che mi pare un ottimo ‘preludio’ all’intero album.
PS: L’ho composta utilizzando principalmente il Gourd Tree, uno strumento che è composto da dodici ‘campane’ sonanti buddiste (buddhist singing bowls). L’atmosfera trae ispirazione dalla vista del sorgere del sole nei pressi di un tempio giapponese tra le montagne di Kyoto mentre partecipavo a una cerimonia Shomyo.
V: Ho una curiosità sulla traccia che prende il nome di Rara. Da un punto di vista compositivo si rifà alla musica delle celebrazioni di Haiti?
PS: Questo è un esempio perfetto delle influenze che sottostanno al mio lavoro in generale. Studiare la musica rara haitiana ha lasciato una traccia indelebile nel mio modo di comporre, anche se in questo caso il titolo fa riferimento più al concetto di energia che alla relazione diretta con questo tipo di musica.
V: Trovo che la dimensione del viaggio mentale, dell’immaginazione, sia una caratteristica di Monophonie. Percorre tutto l’album, ma è particolarmente evidente in due tracce: Motor e Mono.
PS: Mi fa piacere sentirtelo dire! Perché era proprio questo l’intento. Motor è la traccia più complessa, quella che cerca di collegare il primo minimalismo e la drone music degli Anni Sessanta agli algoritmi poliritmici, facendoti viaggiare.
V: Al contrario Plain mi provoca molta agitazione. Ricordo di aver preso parte a una performance a Transmediale a Berlino, alcuni anni fa, dal titolo: Fear of Silence, a brief history of the Air-Raid Siren. Si trattava di un’esplorazione relativa a diverse tipologie di sirene e che si interrogava sulla loro capacità di incidere sulle nostre emozioni. In che modo hai usato questo suono nell’album?
PS: Il suono che ti ricorda una sirena in realtà proviene da un armonio con una accordatura “pazza” messa a punto da Harry Partch. Ma ora che me lo fai notare anche a me pare di sentire una sirena! La ragione per cui ti ricorda quel suono è perché nella composizione ci sono note molto vicine l’una all’altra.
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