Affrontare il discorso sull’identità postcoloniale significa muoversi in un territorio opaco e incerto, perché pochi sono i punti di appiglio e gli sguardi che suggeriscono, senza ricadere nel politically correct, lo svuotamento di categorie estetiche legate all’esotismo e di stereotipi culturali prodotti da una visione della Storia parziale. Sebbene l’arroventarsi di questioni sociali, politiche e economiche negli ultimi anni abbia determinato il ritorno della volontà di dibattere, raramente è stato fatto prestando attenzione alle nuove condizioni di vita e di pensiero determinate da decolonizzazione e modernizzazione. Altre voci, altre storie, altre sensibilità, che si sono sviluppate nella trasformazione di un passato dato in un presente composito e contrassegnato da itinerari eterogenei, liberati da impostazioni etnocentriche, non hanno ancora acquisito la forza espressiva necessaria per formulare nuove visioni critiche orientate al futuro. Per questo motivo occorre prestare attenzione alle modalità attraverso cui l’arte postcoloniale, oltrepassando la costruzione immaginaria di un Occidente tendenzioso, punti al riscatto di un’appartenenza soffocata, prefigurando il desiderio di riconciliarsi con un sé violato.

Nel nuovo ordine transnazionale – così definito, come ricorda Homi K. Bhabha, poiché contraddistinto da una molteplicità di spostamenti: dal viaggio della missione civilizzatrice a quello della schiavitù, dal problematico inserimento degli immigrati provenienti dal Terzo Mondo in Occidente, dopo la Seconda Guerra Mondiale, al traffico di rifugiati politici dentro e fuori del Terzo Mondo (Bhabha Homi K., in Macrì Teresa, Postculture, pag.14) – le strategie di sopravvivenza ci mostrano spazi di fuga, reale e immaginata, in cui il soggetto, coniugando dimensione fisica e mentale, assegna un significato nuovo alla propria esistenza, problematizzando la questione dell’identità in chiave postmoderna, come gioco del sé e performance. Così accade nelle fotografie di Samuel Fosso dove il corpo diviene il luogo di riflessione e mappatura di transiti, desideri e mutamenti sociali, storici e esistenziali. Parlare di Samuel Fosso è come parlare dell’Africa equatoriale degli ultimi decenni, un territorio prismatico e disperato, popolato di “fantasmi incarnati” che spingono a muoversi, ricercare, sperimentare nuove realtà, meno inquietanti di quelle passate o recentemente vissute. Sotto questa luce la vita di Fosso è paradigmatica: nato nel 1962 in Camerun, presto si trasferisce in Nigeria e nel 1970, dopo la distruzione del suo villaggio durante la Guerra del Biafra, si sposta col fratello a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, in breve tempo trasformata in Impero ad opera di Jean-Bedel Bokassa.

Qui lavora come fotografo ritrattista e all’età di soli tredici anni comincia a riflettere sul binomio arte-vita, divenendo soggetto e oggetto dei suoi ritratti: “ironiche messe in scena che esplorano la possibilità di moltiplicare i significati del corpo attraverso modalità tipiche del travestimento e della performance (che) possono essere considerati precoci esempi di commento ponderato sulla mascolinità, il genere, l’identità e la sessualità nell’Africa contemporanea” (dalla mostra personale alla galleria Extraspazio, Roma, curata da Guido Schlinkert, in Kult, n.13, 2006). Un’Africa molto diversa da come siamo abituati a rappresentarla e riconoscerla; un’Africa in cui paradossalmente troviamo, come sottolinea Okwui Enwezor, un’incredibile anticipazione delle convenzioni della fotografia postmoderna, che annovera tra i suoi più celebri interpreti: Cindy Sherman, Luigi Ontani e Yasumasa Morimura. Pensare a un’anticipazione è piuttosto curioso – soprattutto se si considera la condizione di estremo isolamento della Repubblica Centrafricana, un contesto ancora oggi governato da una polizia criminosa e sempre a rischio di colpi di stato – ma quando si guardano le foto di Fosso, che combina sapientemente costumi settecenteschi e della sua tribù, gli Ibo, all’interno di uno studio kitsch e in pose da divo, si ha un’esplicita conferma delle modalità di smistamento di codici culturali che richiamano la dimensione postmoderna del self-fashioning, e la sua aura fatta di finzione, esibizionismo, mascheramento, teatralizzazione e ironica rappresentazione di sé.

Oshodi, Lagos, Nigeria. Photo: Gideon Oladimeji.

Un sé piccolo e molteplice, ambiguo, androgino, incerto, apparentemente fuori luogo e dissonante rispetto al paesaggio ma squisitamente visionario e presente. In grado di coagulare un’infinità di immaginari e informazioni producendo tassonomie che si pongono come esplorazioni del mondo postcoloniale africano filtrate da un ricorso farsesco all’auto-identificazione che rievoca gli eccessi politici dell’ordine neocoloniale (l’autoproclamazione di Mobutu in qualità di salvatore africano dello Zaire o l’autoincoronazione imperiale di Jean-Bedel Bokassa in Centrafrica). Il discorso di Fosso si pone come riflessione sull’identità e la rappresentazione popolare africana, che oltrepassando i confini del ricordo individuale e della cultura orale, diviene testimonianza di una realtà socio-culturale e storico-politica in fieri. La malleabilità con cui suggerisce una riflessione sulla ricostruzione dell’identità postcoloniale, denota la sua capacità osmotica di reagire con l’esistente, rintracciabile nella capacità di far convergere postmodernità e postcolonialismo, globale e locale, sentimenti e storia culturale individuale. Esattamente questa è la potenza corrosiva delle Postculture, che propongono un universo semantico in progress, che si pone l’obiettivo di decostruire gli stereotipi occidentali manifestando anche un punto di vista critico sulla cultura di appartenenza e le nuove seduzioni della modernità, a partire dall’elaborazione di poetiche ispirate all’essere erratico, che vengono messe in relazione con altre tipologie di disagio esistenziale, conflittualità collettive e marginalizzazione personale.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.