È stata un’esperienza breve ma potente quella di incontrare Lars Von Trier sullo schermo, poter osservare le espressioni trattenute del suo volto, il tremore delle mani, scorgere quel tentativo di nasconderlo, quel desiderio di essere normale, di mascherare una vulnerabilità che ha rappresentato molto di più di un’introduzione alla terza stagione, Exodus, della sua serie culto, The Kingdom, fuori concorso a Venezia 79. Osservando il corpo dell’autore, divenuto in questa anomala circostanza anche “corpo dell’attore”, siamo entrati con prepotenza nella storia, immaginando di abitare quell’ospedale a Copenaghen, come corpi, consumati e divorati dalla malattia, e come spiriti, esistenze impalpabili intrappolate in un mondo fantastico, dove la realtà diventa permeabile e la materia polimorfa.
Dopo oltre venticinque anni il cineasta danese rimette mano ad un progetto iconico, ricordo di un’epoca in cui gli autori, a partire da David Lynch con Twin Peaks, avevano manifestato interesse in un’incursione nella serialità, cambiandone profondamente l’aspetto, giocando e mettendo in crisi i generi. Con Trier è il medical ad essere contaminato con l’horror, col grottesco, ad essere pervaso da un umorismo nero. Del resto quale genere può prestarsi a riflettere meglio sul passaggio e sulla fluidità tra il mondo dei vivi e quello dei morti; tra il corpo come carne, organi, tessuti, secrezioni, con le sue protesi e ibridazioni, e il corpo come gabbia dello spirito, di entità immateriali o di altri stati della materia che gli sopravvivono? Un altro aspetto interessante del genere è rappresentato dall’ospedale come microcosmo, abitato da una comunità costantemente in conflitto tra pulsioni, potere, scienza e passioni. Un territorio in cui l’incontro con lo straniero (il paziente) avviene sempre attraverso una ferita, una tragedia, un trauma. L’ospedale è un cronotopo dove prendono forma anche antiche fratture, come quella tra svedesi e danesi. L’arrivo del dottor Helmer Jr e la prova che deve superare per essere accettato da questa comunità unita ma divisa, è paradigmatica e spassosissima.
A traghettarci attraverso i cinque episodi è l’anziana Karen, la sonnambula che svela immediatamente il meccanismo attraverso cui i confini tra realtà e finzione diventano confusi. È attraverso un dvd che viene a conoscenza della serie (ricordiamo la battuta esilarante con cui ha inizio il viaggio: “Ma come si può fare una boiata del genere?”, pronunciata mentre spegne la tv sul finale della seconda stagione) e dell’esistenza di questo mondo altro, di questo vero e proprio Regno, chiuso, che non ha passaggi, se non l’errore. È infatti grazie a un pipistrello posatosi sulla fotocellula di una porta trasparente che Karen (che è un po’ tutti noi) riesce a penetrarlo. Grazie alla sua curiosità e innocenza, che è senza dubbio, in questo luogo così permeato dal Male, la caratteristica più sovversiva del personaggio, familiarizziamo con le sue vicende e protagonisti, con ogni maschera, compresa quella del luciferino Willem Dafoe.