Pochi ricordano che il primo film pornografico fa la sua apparizione agli albori del secolo breve, ma è solo negli anni Settanta che avviene la legalizzazione. Senza mai uscire completamente dal sommerso la pornografia intraprende così il suo lungo cammino di riconoscimento, non scevro di pregiudizi, diventando a suo modo un genere, un mercato, un modo di raccontare le storie, un catalogo di immaginari ed estetiche molto codificati, un abecedario di stili di regia e soprattutto interessando un pubblico sempre più ampio e variegato. Nonostante ciò, guai a chiamarla cinema! Dell’emancipazione della pornografia e del suo lento avventurarsi verso la narrazione audiovisiva autoriale dobbiamo ringraziare sicuramente Bruce LaBruce che, attraverso le esperienze del queercore e dell’arte, assurge allo stato di cineasta di fama internazionale, cominciando ad introdurre tematiche che oggi sono imprescindibili per qualsiasi festival. Se l’autore canadese è diventato il simbolo dell’esplorazione dei taboo più pruriginosi della società borghese, va ricordato che l’immaginario della pornografia gay subisce diverse variazioni a seconda delle decadi di riferimento e viene costruito principalmente dalla fotografia, dalle riviste di fitness e da quelle dedicate al benessere e al culto del corpo, considerate una forma di pornografia softcore quando tra gli anni Quaranta e Cinquanta l’omosessualità viene ancora vissuta nell’ombra.
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Da quel momento comincia l’alternanza dei modelli di bellezza maschile, dall’efebo al culturista, dall’uomo virile e villoso dei Settanta ai corpi nuovamente snelli e glabri degli Ottanta. Con l’avvento di internet negli anni Novanta il porno-attori diventano dei veri e propri divi, mentre nei Duemila il cinema pornografico si fa più strutturato sul piano della sceneggiatura – pur mantenendo alcuni topoi di riferimento, come i luoghi: lo spogliatoio, lo studio medico, la palestra – e evolve nei sottogeneri: dal leather agli uomini maturi, dal sadomaso allo spanking e così via. Bruce LaBruce è un autore che conosce molto bene il mondo di cui parla nei suoi film, gli immaginari da cui prende le distanze e quelli nuovi che introduce, considerato che già ai tempi della rivista punk “J.D.s” fondata con G.B. Jones, si focalizza su una dimensione più fluida del genere, che ritroviamo nelle sue storie. Saint-Narcisse incluso nella selezione ufficiale della 17esima edizione delle Giornate degli Autori, pur partendo dal mito greco di Narciso, di cui LaBruce legge un forte ritorno nella contemporaneità dei social media, lo trasforma in una storia personalissima co-scritta con Martin Girard che approda, dopo la simbolica uccisione del Padre, incarnata dalla figura di Father Andrew, il prete depravato che abusa di Daniel, ad un nuovo concetto di famiglia.
Ma cominciamo dall’inizio. Dominic, il protagonista, è ossessionato dalla propria immagine, passa le giornate eccitandosi mentre si scatta dei selfie con la Polaroid (qui viene introdotto l’aspetto autoerotico di questa pratica assai diffusa). In seguito alla morte della nonna, scopre che sua madre è ancora viva e intraprende un lungo viaggio per raggiungerla e incontrarla. La donna, che ha l’aspetto di una strega ma in versione hippy, non solo è lesbica, ma vive con una ragazza, che si scopre essere sua figlia. Dominic viene a conoscenza anche dell’esistenza di un fratello gemello, Daniel, che vive recluso in un monastero. Il tema del ricongiungimento, il desiderio di rimettere insieme i pezzi di questa famiglia i cui membri sono contemporaneamente parte di altre famiglie, dove vengono a mancare tutte le figure paterne, percorre il film per intero. L’aspetto più interessante è che dal momento in cui saltano le gerarchie tra genitori e figli viene meno anche il timore dell’incesto e la famiglia inizia ad ampliare il numero dei suoi componenti, a partire da un amore senza confini e apertamente bisessuale.
Se la storia assume toni drammatici, ma viene stemperata dall’ironia con cui LaBruce ricorre al genere pornografico (dalla scena in lavanderia a quella del rapporto sessuale tra i due gemelli), c’è sul piano della regia una certa influenza anche dell’estetica dei film sentimentali e un ricorso a una grande varietà di cliché dell’immaginario gay (si pensi a San Sebastiano, al dress code leather di Dominic, al rapporto tra un uomo più giovane e uno maturo, che era stato ben analizzato nel precedente Gerontophilia), come di una fotografia che richiama gli anni Settanta e in alcuni casi i controluce soft degli anni Ottanta. Saint-Narcisse è un’opera che andrebbe analizzata in profondità per la quantità di riferimenti culturali, più o meno espliciti, che veicola e la capacità di raccontare una storia che attinge a piene mani da più generi, tra cui quello pornografico, mettendolo sullo stesso piano degli altri con un certo compiacimento e ironia, lanciando un messaggio forte sulla possibile trasformazione dell’idea e dell’immagine tradizionale della famiglia.