In occasione della mostra Nova Libertaria, che si è tenuta dal 6 all’8 giugno ai Forum Studios abbiamo incontrato i Salò, il collettivo romano nato nel 2019 e che oggi vede coinvolti in primis Toni Cutrone, Cosimo Damiano, Emiliano Maggi, Giacomo Mancini e Marco Bonini. Li abbiamo raggiunti successivamente per un’intervista esclusiva mentre stavano registrando nuovo materiale proprio in quegli Studios dove musicisti e compositori hanno scritto importanti pagine della storia musicale italiana, soprattutto in relazione al cinema. Dopo l’uscita del loro primo album sulla berlinese Kuboraum Editions nel 2023, questo progetto profondamente romano, con un forte radicamento territoriale, grazie anche al Baronato Quattro Bellezze, ha trovato molte strade per farsi conoscere e apprezzare internazionalmente. In attesa che una nuova pubblicazione prenda forma, abbiamo voluto approfondire con loro il rapporto tra musica e performance. La loro visione quasi da opera d’arte totale, ossia di incontro e sintesi tra diverse arti.

V: Vi trovate all’interno dei Forum Studios, un luogo dove compositori e grandi maestri hanno fatto la storia della musica italiana, soprattutto in relazione al cinema. Perché state registrando qui?

S: Salò è un progetto che porta con sé un alone di mistero. Non sappiamo mai cosa accadrà intorno a noi o in seguito alle nostre performance. Inizialmente siamo stati invitati a suonare ai Forum Studios, in occasione della mostra Nova Libertaria, che si è tenuta dal 6 all’8 giugno, a cura di Arturo Passacantando. Un progetto di The Orange Garden, in collaborazione con Nero, prodotto da Iterum. Successivamente abbiamo scoperto che ci sarebbe stata data la possibilità di registrare della nuova musica in questo luogo mitico, per una futura pubblicazione. Abbiamo accettato immediatamente, perché tutto quello che è accaduto qui è fondamentale per il nostro percorso. Che si tratti di Morricone, dei Goblins o di altri musicisti e situazioni, questi spazi ci parlano di un passato a cui desideriamo attingere, anche solo a livello immaginifico. Essere qui, usare certi strumenti, con lo scopo di tirare fuori qualcosa di nostro, con un valore simbolico e culturale importante per noi, è una bella occasione. 

V: Ripercorrendo la vostra breve storia. Dove e come è cominciato tutto?

S: L’inizio coincide con la performance realizzata in occasione della mostra di Emiliano alla Nomas Foundation, qui a Roma, nel 2019. In seguito, con la pandemia imminente, abbiamo deciso di proseguire, perché ci eravamo divertiti e avevamo trovato stimolante ciò che era uscito fuori. Oggi possiamo considerarci una sorta di collettivo, non solo aperto alle collaborazioni esterne, ma anche alla variazione dei suoi componenti. Alcune volte possiamo essere in sette sul palco, altre in tre o quattro.

 

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V: Immagino che il vostro primo disco, uscito a settembre dello scorso anno, su Kuboraum Editions, non nasca completamente in studio. Per via della particolare natura perfomativa del vostro progetto, suppongo che molto materiale provenga dai live. È così?

S: Esattamente, l’album ha preso forma sia dal materiale proveniente dalle performance live, sia prodotto in studio e racconta circa tre anni del nostro percorso. È un doppio vinile, assai lungo, pensato come fosse una storia e con un immaginario molto forte. Vede coinvolti Toni Cutrone, Cosimo Damiano, Emiliano Maggi, Giacomo Mancini e Stefano di Trapani, insieme a degli ospiti che hanno aiutato a completare l’opera.

V: Non si tratta di un progetto strettamente musicale…

S: Non del tutto, perché dal momento in cui indossiamo i costumi ci addentriamo in una dimensione più performativa. 

V: Come nasce l’idea di utilizzare dei costumi così connotanti, che attingono ad un immaginario seicentesco-settecentesco ma anche fantastico?

S: Come dicevamo la prima performance era legata alla mostra di Emiliano alla Nomas Foundation e aveva come tema il costume, con un chiaro riferimento al suo carattere sociale all’interno della società del 1600 e 1700. Dove ogni persona dimostrava i proprio ceto di appartenenza attraverso l’abito. Il costume era un strumento di grande differenziazione. La mostra presentava una serie di sculture in ceramica, e i costumi, interamente fatti a mano, ne riprendevano forme e colori. In occasione della perfomance pensata per l’opening, c’era un pianoforte rosa al centro della sala, di grande impatto, che dava già il polso dell’identità che avrebbe preso il nostro progetto in futuro.

 

Salò: copertina album.


V: I costumi però non sono rimasti gli stessi, ogni quanto li cambiate?

S: Quando è possibile cerchiamo di farne di nuovi, anche perché durante i live vengono distrutti! Un aspetto molto interessante è giocare sulle forme e osservare come queste condizionino i movimenti, quindi comportino un modo differente di suonare uno strumento. La difficoltà di suonare e vedere è un’esperienza personale, che poi restituiamo all’esterno. Per questo ci teniamo a sottolineare che il nostro progetto non è esclusivamente musicale.

V: Su questo fronte però i riferimenti sono molti. Dalla psichedelia, al prog, al folklore. Come siete riusciti a combinarli e a trovare un punto di incontro tra voi, che avete anche dei trascorsi musicali assai diversi?

S: Il disco è un viaggio che si compone di linguaggi differenti, che abbiamo cercato di far coesistere in un discorso unico. Ci siamo riusciti perché, pur avendo alle spalle percorsi variegati, abbiamo una sensibilità comune, visto che musicalmente abbiamo ascoltato di tutto, dalle colonne sonore, alla musica folk, all’elettronica sperimentale.

V: Le colonne sonore sono una fonte di ispirazione esplicita?

S: Certamente, certi pezzi sono addirittura stati concepiti come delle soundtrack. Come Rogo, che ha un tema che si ripete e ha una struttura sviluppata su una sorta di layering, molto diversa da quella della forma canzone, del pezzo prog o sperimentale. Potremmo dire che è “meno musicale” e più visiva, cioè tipica della musica per immagini. L’ispirazione cinematografica nel progetto Salò è centrale, permea l’estetica, il mondo che abbiamo creato, lo stesso sviluppo narrativo dell’album. Anche il richiamo al folk, alla romanità, al modo più psichedelico e folle di rivisitare gli stornelli per esempio, ha un’attinenza con un passato preciso, che si rifà a colonne sonore e momenti d’oro della produzione musicale del nostro paese, da cui noi attingiamo. 

 

Salò. Photo: Alma Libera

 

V: Il folk è un forte richiamo al radicamento, in controtendenza con l’esterofilia e anche la globalizzazione della musica. Perché avete compiuto questa scelta? 

S: Non c’è stato un ragionamento, questo tipo di ispirazione è ciò che ci ha unito. Grazie allo studio di Damiano siamo riusciti a tradurla musicalmente, creando una struttura sonora sinfonica. Prendendo come riferimento alcune colonne sonore, abbiamo cercato di utilizzare degli specifici strumenti in quel modo, per ottenere quelle sonorità. D’altronde Salò ha un approccio artistico, volto a riappropriarsi di ispirazioni e situazioni, per dargli un’altra vita, reinterpretandole, cercando di dal loro una nuova lettura. Consentendo alle persone di riscoprire il passato, il folclore, ciò che è stato accantonato. Non lo facciamo per seguire un trend ma in maniera molto sincera, quasi per pura soddisfazione personale. 

V: Il vostro progetto è un’occasione per addentrarsi anche nel passato romano. Forse è giunto il momento di parlare della relazione tra Salò e il Baronato Quattro Bellezze.

S: Nell’ultimo anno e mezzo ci siamo dedicati ad un nuova avventura, riaprire il Baronato Quattro Bellezze, un locale storico di Roma, dove “regnava” l’artista Dominot, esibendosi con i suoi molteplici costumi, insieme al compagno che suonava il piano. Abbiamo riscontrato varie similitudini con il nostro progetto, così abbiamo deciso di farlo rivivere e con esso una Roma che pensiamo stia scomparendo. Quando Dominot aveva il Baronato, nel triangolo di vie adiacenti, c’erano diversi locali in cui si riunivano tutti i musicisti della scena romana degli Anni Novanta. Piccoli spazi dove si suonava jazz, con le luci arancioni, sotterranei, dove c’era una Roma che bruciava. Il Baronato è rimasto chiuso per circa vent’anni, dalla morte di Dominot, ed è un luogo davvero felliniano e pasoliniano. Riferimenti che sono anche nostri, per questo lo riteniamo prezioso e a nostro modo lo proteggiamo e ce ne prendiamo cura.

V: Allo stesso tempo è diventato il vostro spazio di libertà e sperimentazione.

S: Ci riuniamo lì ogni martedì dalle sette a mezzanotte, per il resto della settimana è chiuso. E invitiamo sempre un ospite, che viene coinvolto nelle nostre performance, che avvengono appunto in questo spazio piccolissimo, fumoso e con le luci rosse. È un luogo d’incontro, dove portiamo avanti il nostro discorso sull’improvvisazione e creiamo ponti con altre persone. È un po’ come se fosse il nostro studio. Ci sono tante opere di Emiliano appese, altre di Dominot. Si mischiano l’immaginario dei Salò con quello del Baronato. Abbiamo anche recuperato molti oggetti dalla cantina, restaurato e riappeso i poster originali degli spettacoli di Dominot, uniti ai costumi di Emiliano. In passato era un luogo in cui si incontravano registi, scrittori, in cui succedevano cose. Abbiamo voluto ricreare quell’atmosfera, puntando esclusivamente su una comunicazione per passaparola. 

V: La voce e la lingua. Come utilizzate la prima e perché variate la seconda?

S: Dal punto di vista della lingua non siamo legati all’italiano e neanche all’inglese. Utilizziamo entrambe, esattamente come lasciamo esistere delle composizioni esclusivamente musicali nell’album. In alcuni casi abbiamo pezzi astratti, dove la voce si esprime solo attraverso vocalizzi, senza fare riferimento a un vero e proprio testo, venendo usata come o al pari di uno strumento. In altri casi abbiamo sentito la necessità di virare nella direzione della forma canzone, perché volevamo raccontare una storia. Come nel caso di Rogo o La Ballata delle Mosche. Più in generale la canzone viene utilizzata in tutte le parti più legate al folclore, quelle più visive, dove avevamo bisogno della narrazione, come quando parliamo dei processi alle streghe. Però la voce per noi è come gli altri strumenti, non è l’espressione tipica della figura del cantante. 

 

Salò.


V: Quindi in che modo la utilizzate esattamente?

S: In maniera più sperimentale. Come suono sta al pari degli altri strumenti. Chiaramente è differente, ma quando andiamo a finalizzare non la spingiamo come in un disco pop, dove “basta che si senta la voce”. È una situazione più armonica, dove a volte si perde, altre crea un tappeto che lascia emergere un altro strumento. Non viene utilizzata in modo convenzionale. Ci sono delle parti dove viene cantata una canzone e allora in quel caso il ruolo è definito, ma l’album si avvale di tante strutture diverse e questa scelta ha una ricaduta anche sull’utilizzo e sulla funzione della voce. Da quando facciamo il Baronato improvvisiamo molto, quindi molte idee nascono così.

V: Come passate dalle strutture all’improvvisazione e viceversa?

S: L’improvvisazione è il principio di una struttura. Essendo in molti, ciascuno di noi non può fare ciò che vuole, diventerebbe il caos. Quindi si creano delle strutture, al punto che quando si improvvisa tanto insieme divengono una sorta di comunicazione extra-linguistica, extra-sguardi. Occorre però specificare che noi facciamo due tipologie di performance, una è quella legata al Baronato dove l’improvvisazione è centrale, mentre l’altra è quella più canonica, dove riproponiamo il disco, più adatta a situazioni come quelle dei festival.

V: Quindi state diventando una band?

S: Preferiamo definirci un collettivo, quindi mantenere una formazione più aperta, tanto quanto cercare di definire e incasellare il meno possibile il nostro progetto. Ogni martedì al Baronato facciamo dei live, dove capita di invitare altri musicisti, che diventano parte di Salò in quella circostanza. Su un palco da festival invece ci comportiamo più da band, perché quel tipo di pubblico probabilmente non apprezzerebbe l’eccessivo effetto sorpresa del Baronato. A seconda di chi ci chiama, e anche del contesto in cui suoniamo, possiamo scegliere una tipologia di live piuttosto che un’altra. 

V: Quale importanza rivestono i luoghi nelle vostre performance?

S: Sono fondamentali. Non suoniamo nei locali, non facciamo tour da rock band, preferiamo suonare sulla spiaggia, in un museo, in un teatro, in contesti dove l’aspetto perfomativo possa essere esaltato. Poco tempo fa abbiamo fatto un live nello storico bagno del Cocoricò a Riccione, dove ci siamo potuti permettere di fare una performance in stile Baronato. Ma abbiamo anche suonato nell’atrio di Villa Medici, oppure sull’Isola Tiberina, tipo musicisti di strada. In quell’occasione per esempio abbiamo fatto solo stornelli. L’immaginario viene creato a monte della performance site specific e ispirato dal luogo. Anche l’assetto del gruppo cambia, come gli strumenti che utilizziamo.

V: I luoghi o il folclore sono presenti concretamente nelle vostre composizioni? Penso ai field recordings…

S: Ci sono sempre passaggi di atmosfera, ma niente registrazioni di materiale tradizionale. In Salò suoniamo tanto e se attingiamo a qualcosa di tradizionale ci piace reinterpretarlo. Tipo un’idea di stornello. Non abbiamo un approccio etnomusicale, al contrario rifacciamo tutto ciò che ci piace.