Emerald Fennell è un’autrice. Al suo secondo lungometraggio, dopo il successo e gli onori di Una donna promettente, non c’è alcun dubbio. Ne è la prova Saltburn, presentato nella sezione Grand Public della diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Un film che tra sfumature gotiche e grottesche approfondisce tematiche sociali tipiche dell’avant-pop cinematografico contemporaneo, come la disparità di genere, in un continuo gioco di riferimenti tra cinema e letteratura. La Fennell omaggia a suo modo Evelyn Waugh, la sua critica e al contempo fascinazione per l’aristocrazia. Ma non risparmia di strizzare l’occhio a Bret Easton Ellis o di tratteggiare protagonista e antagonista, prendendo come riferimento l’enigmatico e decadente ospite di Teorema di Pier Paolo Pasolini.
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Siamo nel 2006, scelta azzeccatissima per far correre un brivido lungo la schiena dei Millennials, a Oxford, dove si incontrano uno studente di umile estrazione (in realtà, un piccolo borghese) di nome Oliver Quick (interpretato da Barry Keoghan) e un affascinante rampollo di una stralunata e hippie famiglia aristocratica di nome Felix Catton (il cui volto è quello di Jacob Elordi). La storia viene da sé, come spesso accade tra gli opposti, e la vena omoerotica inizia a pulsare, il sangue scorre irrorando una relazione di amicizia che ben presto si trasforma in una ossessione e in un intrigo. Chi si sta approfittando di chi? Barry Keoghan è ancora una volta l’estraneo che minaccia la tranquillità familiare, come ne Il sacrificio del cervo sacro di Yorgos Lanthimos, ma è anche il mutaforma alla Matt Damon de Il talento di Mr. Ripley, un personaggio che costruisce la sua identità sulle menzogne, fino alla rivelazione finale.
A dire la verità la sceneggiatura questa volta è l’elemento meno interessante e più prevedibile dell’opera. A catturare l’attenzione è l’atmosfera e l’ambientazione grazie alla fotografia di Linus Sandgren e all’abilità di ricreare un intero scenario – dalle location ai costumi– capace di dialogare sia con l’heritage più british (che rimanda immediatamente all’impeccabile ricostruzione di Quel che resta del giorno o di Maurice di James Ivory), sia con l’esplosione rutilante dell’immaginario delle controculture e delle avanguardie fashion inglesi. L’occhio della macchina da presa è orientato all’erotizzazione dei conflitti e alla sessualizzazione dei corpi, fino alle due indimenticabili scene hot: quella della vasca, attualizzazione molto più spinta, della forma del desiderio espresso dalla Lucia di Silvana Mangano in Teorema di Pasolini, e quella vampiresca che torna sul tema che divide uomini e donne già in I Love Dick, ovvero la relazione tra sesso e ciclo mestruale. La musica fa il resto, trasformando delle impettite feste in costume in allucinati rave party. Tra ali da angelo e corna da cervo (che poco si discostano dai dress code di Euphoria), si consuma quello che a nostro avviso sarebbe dovuto essere il finale: tra urla disperate che sfumano nel silenzio, vestaglie vermiglie che svelano corpi nervosi protesi verso il labirinto e una tragedia sulfurea la cui spiegazione viene lasciata sullo sfondo.