Una posizione acquisita dell’antropologia contemporanea è quella secondo cui non esiste nulla di naturale nel corpo. In ogni cultura il corpo è riempito di codici, significati, segni e simboli che lo pongono in relazione col mondo o più mondi. La pelle stessa – e con essa l’abito in quanto seconda pelle – non si qualifica più, già in Gregory Bateson, come confine bensì è “trama che connette” (Canevacci Massimo, Sincretismi, pag.186), che scambia elementi mentali con l’esterno, rendendo il corpo potenzialmente sconfinato. Di questa visione neo-animista del corpo è debitore il concetto di bodyscape: corpo-paesaggio, corpo-mondo, corpo-medium che si relaziona con molteplici scene culturali, funzionando da soglia, da varco di entrata e uscita, di un soggetto disseminato attraverso i flussi multimediali. Di questo corpo individuale e collettivo è responsabile la moda, che nel suo fare tutt’uno con la comunicazione e la tecnologia, si qualifica come un tessuto di informazioni che lo investe e lo riveste, trasformandolo in un’interfaccia, in uno scenario attraversato da una molteplicità di codici in transito. Corpo vestito allora in relazione con l’ambiente, la società, il cosmo; che parla della quotidianità, della storia, della vita stessa, nella sua accezione plurale. Non solo il corpo degli individui può essere considerato tale, ma in questo modo possono essere letti anche i territori, le merci, analogamente effimeri e non dati una volta per tutte. Continuamente ricreati, risignificati, resi feticcio da uno sguardo eroptico. Dire corpo allora significa dire corpus di idee, immagini e valori codificati e in divenire. Corpo come superficie significante, sistema di comunicazione, costrutto artificiale e architettura di contenuti che interagiscono con diversi tipi di identità.

Identità come abiti, identità abitate, che non si definiscono più in qualità di Io ma di Selves: immagini che denotano nuove strategie di incorporazione e digestione culturale indotte dalla dimensione di flusso che la vita metropolitana e nelle reti richiama. Una figura antropologica chiave nella descrizione e rappresentazione di questo fenomeno, è quella del neodandy: una sorta di “eyesfull body” (Canevacci Massimo, Sincretismi, pag.166), i cui occhi al limite dell’artificialità sono sempre rivolti verso l’esterno e verso l’interno – corpo che si apre mostrando gli organi, il funzionamento, i desideri, le pulsioni – pubblicizzando un continuo e perpetuo scandaglio, non dell’Io, del personaggio, della società, ma di un Altrove sconfinato e che può essere mercificato. Il neodandy, nella definizione che ne dà Massimo Canevacci, altro non è che un intrigo di corpi, tecnologie somatizzate, cosmesi feti-chic, valori aggiunti di comunicazione, zone in-between, al margine, oscure, desideri eroptici, visionarie anticipazioni, transiti oltre i dualismi di genere e ossessive ricerche del superamento, rivolte allo stare fuori e avanti, in una status di perenne esposizione mediatica accentratrice e decentrata.

Photo: Sunny Ng.

L’irrisolta attrazione del dandy metropolitano per il dettaglio e la fashion consciousness si traduce nel neodandy, nell’avant-pop e ancor meglio nell’hyperdandismo di Marylin Manson, in una costante irrequietezza riguardo all’essere raggiunto che motiva: fascinazione per l’avanguardia tecnologica e inclinazione al gioco mediatico. Da cui lo statuto di “altrove spaziato” (ibid:, pag.167), l’essere in-between, l’identità metamorfica, self-directed, e la grottesca de-auratizzazione (che altro non è che una ri-auratizzazione) del concetto di vita come opera d’arte. Come ricorda Ranieri: “il neodandy è in-between, in quanto non solo un occhio che osserva schemi e confini per starne fuori, ma anche “sguardo” che oscilla tra seduzione e cupio dissolvi. (…) perché la sua non è ricerca di un bello stabile ma desiderio della sua distruzione. Anzi: della sua decapitazione. Spiacere è il suo piacere, perché dà conferma di quello stare davanti e prima. Fuori. (…). Il neo-dandy è veramente fuori dall’opposizione tra individuo e società: se il dandy poteva essere definito anarchico perché portatore di un’istanza fortemente individualista (vicina a quella dell’artista maledetto), il neo-dandy non ha confini ai suoi esperimenti eversori (…)” (ibid:, pag.167). Il neo-dandy è una merce visuale feti-chic che connota il passaggio dalla modernità alla postmodernità, affiancando a voci tipiche dell’estetica moderna – allegoria, barocco, moda – altre caratteristiche del panorama comunicativo della contemporaneità: dall’estetica del videoclip al culto delle pop star, al cyberspazio, alla frammentazione dell’esperienza come categoria onnicomprensiva del mondo, all’ostentata e elegante impassibilità del Male, in relazione alla trasformazione del denaro in feticcio.

È dunque, diversamente dal dandy e dal bohémien, che esprimono in modo inconfondibile il mescolarsi dell’attività estetica con le forme di vita della metropoli e della produzione industriale, figlio e padrone della cultura mediale, seriale e virtuale. Non più figura residuale – prostituta, flâneur, collezionista – immersa e soggiogata dalla folla, bensì Oltre e Altrove potenziale, che sfida ogni tipo di impostazione dualistica, in particolare quella della società occidentale. Il neo-dandy è membro eletto, ispiratore e portatore di una filosofia meticcia e interculturale, che privilegia intrecci estetici che garantiscono originalità assoluta nello scegliersi la propria moda. Abbandono di rigide tassonomie e sistemi differenzianti, a favore di un’estetica della selettività che vive sulla liberazione dei segni indotta dalla pervasività della comunicazione, dalla trasformazione di ogni superficie in “superficie comunicativa”, sulla quale si avvicendano una molteplicità di informazioni e geografie, la cui codifica e decodifica non è più univoca e definitiva. È nella metropoli immateriale, in quel paesaggio controverso, discontinuo, frammentario in cui il tempo si declina al plurale, come lo spazio e la storia, che la costruzione di un mondo ordinato entra in crisi, che la realtà si tramuta in schemi di informazione, che i segni proliferano oltre la capacità di ricezione vigile e di decodifica cosciente, determinando la costituzione di mappe cognitive per lampi di associazione, che scivolando sui corpi di persone, cose e territori stilizzano sogni di identità mai compiute, infedeli e deterritorializzate.

254-1 Gionmachi Kitagawa, Kyoto, Japan. Photo: Hamza Herbay.

Per questo motivo il corpo come bodyscape è il luogo del suo prodursi come immagine effimera e il self-fashioning è la più potente metafora abitativa e performativa della contemporaneità. Una modalità operativa di customizzazione e continua attenzione ai feedback che permette contemporaneamente: costruzione identitaria, sperimentazione e ricerca attraverso la mediazione estetica. Diverse sono le esperienze che dalle passerelle alla strada, passando attraverso l’arte, si possono annoverare di questa tattica antropofagica e tensione ricombinante, che interessa anche i territori, pensati come persone da mettere in scena. Il metodo è sempre lo stesso: prendere, decontestualizzare, liberare, riscrivere. Assemblaggio, montaggio, giustapposizione stilistica, cut-up, incroci, dialoghi, citazioni. Per cui si va dal New Asia Tropic Style, vero e proprio stile asiatico costruito attraverso strategie di brand identity per raccontare l’anima esclusiva di una nuova Asia, “eccitante, vibrante, che procede a grandi passi verso il secolo XXI” (Kyra Pistilli Ornella, Dress Code, pag. 124), partendo da un’operazione di keyword remix ben strutturata, con la finalità di promuovere una politica glocal della tradizione; all’etnico mutante su corpi drag di John Galliano, in cui l’etnico si trasforma senza nostalgia attraverso il surrealismo, il divertimento, la teatralità dello spirito en travesti; alle esperienze dell’arte e della fotografia postmoderna, che con Mariko Mori, Cindy Sherman e Yasumasa Morimura ci pongono di fronte a una moltiplicazione identitaria altamente codificata e contestualizzata – ogni abito un personaggio, ogni personaggio un set, ogni set una storia – che rasenta il dissolvimento.

Ai japo-negro dell’East-Village di New York, ragazzi giapponesi che palesano una sensibilità afro-brasiliana, e che divengono il paradigma di un nuovo sistema di stile e gusto che va dal Bronx a Tokyo; alla j-fashion experience delle culture di strada di Shibuya, Harajuku, Ginza (quartieri di Tokyo a più alto tasso di feticismo vestimentario), che mostrano un panorama altamente contaminato di emozioni al neon, attraverso i look spettacolari delle: kogyaru (regine dello street watching e a tal punto ossessionate dalla moda da abbandonarsi a diverse forme di body-consciousness e prostituzione), ganguro (feticiste dei brand di moda occidentali), yamamba (nuova versione radioattiva delle streghe di montagna giapponesi), burikko (le false innocenti del pianeta del “cariiino”), neololita (bamboline che sembrano abitare un cartone animato in stile vittoriano e che si differenziano a loro volta a seconda di abiti, colori e dettagli in: Classic Ghotic Lolita, Country Lolita, Elegant Gothic Lolita, Elegant Gothic Aristocrat, Punk- Industrial Lolita, Sweet Lolita, School Lolita, 60’s Lolita, Casual Lolita); all’etno-morphing di Hussein Chalayan della collezione autunno-inverno 2002 Ambimorphous, in cui lo stilista turco-cipriota realizza un morphing tra tradizione e avanguardia mediante la decostruzione e ricostruzione dell’abito tradizionale turco, dimostrando come la compattezza etnica possa essere montata e rimontata proprio come un abito.

Ci troviamo di fronte a confini in movimento e trasformazioni che in maniera disincantata inducono a riflettere sulla finzionalizzazione della costruzione identitaria e sulla possibilità di rendere miscibili o frantumare costrutti storici solidi, con lo scopo di generare sempre nuove forme di stilizzazione e invenzione, rendendo più familiare il concetto di multividualità: ossia di pluralità espressiva legata al sentire(si), al vedere(si), all’essere connessi. La connessione è senza dubbio il nodo centrale del corpo come bodyscape, dell’Io come I-skin (Canevacci Massimo, ma anche l’“io-pelle” di Anzieu Didier) e della mente eXtesa, che conduce la moda sino all’incorporazione della tecnologia con gli “abiti intelligenti”, i wearable computers, gli “oggetti pensanti”, che traducono un’ esigenza multi-connettivainsieme alla necessità di essere wireless in ogni luogo. Performativi, aperti, multitasking, fluidi, sempre.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.