C’è un corpo-immagine che si dissemina attraverso i media, generando noia e assuefazione. E c’è un corpo tragico, palpitante e senziente, la cui messa in scena perfora il nostro bulbo oculare raggiungendo il centro nevralgico delle emozioni. È un cuore trafitto quello che meglio descrive la nostra posizione di spettatori di fronte alla visione del magnifico Hokage. Ombra di fuoco, del cineasta giapponese Shinya Tsukamoto, presentato in Orizzonti quest’anno alla Mostra del Cinema di Venezia. Corpo umano e urbano, entrambi sopravvissuti agli orrori della guerra, vengono letteralmente incarnati dagli attori che, in uno spazio angusto e soffocante, delle dimensioni di una camera, restituiscono le psicosi e le nevrosi di reduci e orfani.

 

Hokage, Shinya Tsukamoto.

 

Il trittico dei protagonisti è composto da: una donna che ha perso il marito e il figlio, e vive prostituendosi in un contesto ben lungi dalla ricostruzione e dominato dal mercato nero; un militare, che un tempo era un uomo mite e faceva il maestro, la cui mente è a tal punto lacerata dai ricordi da spingerlo verso la completa irrazionalità dei comportamenti, come carne inerte e inerme, rianimata da improvvise scariche elettriche; un bambino randagio, sporco e irriverente come i mocciosi di strada, nel cui sguardo cogliamo la contraddizione dell’innocenza presente e rubata. Può da questo incontro riluttante e imperfetto nascere una famiglia? Desiderio, illusione. Può un terreno riarso, ridotto a cenere, essere ancora fertile? Dall’idillio al delirio, Tsukamoto in poche scene, fa deflagrare il conflitto che alberga in queste esistenze senza nome. I corpi si contraggono e contorcono, i volti si trasformano in maschere grottesche, le secrezioni infestano la tenerezza e la bellezza, generando repulsione. Gli esseri umani si rintanano come insetti in luoghi protetti, in cui è sconsigliato entrare.

 

Manifesto: Hokage, Shinya Tsukamoto.

La fotografia negli interni ha le dominanti del fuoco. Un impasto di marroni, gialli, arancioni, che si liquefanno nelle ombre, anch’esse drammatiche. L’occhio del regista è carnale, un corpo a corpo con gli attori. Lo sentiamo addosso anche noi, oltre lo schermo. I suoni esplodono, come le reazioni, non ai livelli cyberpunk di Tetsuo, dove i timpani vengono letteralmente perforati da rumori industriali, metallici, radicalmente espressionisti, bensì rappresentano perlopiù una disgregazione della voce in versi e frammenti sonori. Discorsi che non si possono esprimere a parole, che per acquisire una forma hanno bisogno del linguaggio che avvicina l’essere umano alla bestialità o, se vogliamo calcare la mano sul genere, alla mostruosità. Dietro alle sbarre delle abitazioni e nel sottosuolo si annidano coloro che non hanno scampo dalla follia: corpi mutilati, presenze inquietanti, che si parano davanti ai viandanti come in un teatrino. Alla luce del sole, in mezzo alla polvere, le contrattazioni illegali appaiono l’opportunità migliore per ricominciare: un lavoro vero, quello che la donna intima di trovarsi al bambino. Eppure di fronte a questa educazione sentimentale all’orrore, il femminile è disarmato, non costituisce un’alternativa, un porto sicuro con una funzione di controcanto, capace di arrestare il viaggio o di mettere realmente in guardia.

 

Hokage, Shinya Tsukamoto.

L’abbandono della casa è la strada maestra per l’iniziazione, un lavoro sporco, potremmo dire. Abitare la distruzione comporta non trovare pace nella memoria. La paura, la colpa, l’umiliazione gridano vendetta. In un territorio divenuto spettrale, affrancarsi dal passato significa poche cose: perdere il senno, fregare il prossimo, pareggiare i conti. Non c’è spazio per l’amore e neppure per il perdono. I sentimenti sono fuori legge, perché una società non esiste più. Quale lezione dunque Tsukamoto sceglie di impartire al bambino? La più dura: non essere nuovamente vittima ma testimone della violenza. Macchiarsi, divenire responsabile per ingenuità, uomo per continuità. Nei suoi occhi languidi e bruni risuona la domanda: qualcuno un giorno smetterà di far scorrere il sangue? Se in tutta la prima parte la punizione peggiore sembra sopravvivere, lentamente si compie un ribaltamento di prospettiva, che vede in questa pulsione irrinunciabile uno spiraglio per l’essere umano. Forse è proprio a questo flebile bagliore che l’autore giapponese rivolge la sua preghiera.