“Non è in chat che ho conosciuto l’amore, ma in quella baracca che chiamavo casa”. Rivelazioni di uno ‘straniero’ totale.
Il sentiero è scosceso e dissestato. Le piante e le fronde alte e incolte. Al posto della buca di ieri c’è un parco giochi, ragazzi che si baciano. Qualche tossico furtivo. Dalla strada non si vede quasi nulla, bisogna incamminarsi tra sassi e brandelli di vestiti appallottolati nella polvere. Valter accelera il passo, mi infilo dietro di lui. Continuiamo ad addentrarci. La città non è lontana. Ma il sentiero si stringe, a un certo punto scompare. Ho bisogno di una mia geografia. Inizio a fotografare. Valter è inquieto, sospira. Mentre io penso ancora a loro. In coda, donne, uomini e bambini. Zingari in fuga. Così, li ho voluti vedere. “Hey, ecco ci siamo”. Stacco l’occhio dalla macchina, alzo lo sguardo e…Flashback. 30 marzo 2008. Stiamo percorrendo con alcuni bilici le montagne della Bosnia, per raggiungere Sarajevo. Il paesaggio è brullo, non c’è un’anima. Non conosco nulla di questi luoghi, solo quel che diceva la televisione. Alle porte della città, torri alte bombardate. “Oh oh oh! No foto”. Un grido simile a un grugnito mi scuote. Torno in me. Non mi ero neppure accorta di aver ricominciato a fotografare.
Dalla sterpaglia, alla base della torre, esce un uomo. Rom pure lui. Valter cerca di calmarlo, ce l’ha con me. Mi guarda in cagnesco e io mi allontano. Li lascio parlare. Non capisco cosa dicono, il romanes è una lingua quasi esotica. Per un popolo, ai nostri occhi, incomprensibile. Gente girovaga, che abita in baracche. Tutto ad un tratto la situazione si ricompone. “Non preoccuparti, aveva paura che li stessi fotografando. Ma gli ho spiegato che eri innocua e che ti stavo solo raccontando la mia storia”. Ed eccoci qui. In mezzo al nulla. In quello che un tempo era il campo dell’Arrivore, il primo insediamento nomade autorizzato del Comune di Torino. “Sono nato al parco della Colletta, proprio vicino a una delle due porte da calcio. Poi sono finito per tre anni in ospedale, mentre i miei genitori si sono trasferiti in Strada del Francese e dopo ancora all’Arrivore. All’inizio però non eravamo stabili. Entravamo e uscivamo dal campo. Solo dall’87 al ‘99 abbiamo avuto fissa dimora qui. Io ci ho passato i miei vent’anni. Ho vissuto i miei primi amori omosessuali. Mi ci sono sposato”.
I ricordi affiorano. Piazzole di cemento abusive, ballate, tresche sentimentali. Ogni angolo di questo luogo dimenticato si riempie di vita. “Là c’era la baracca di mia cugina, qua di mia sorella. Lì ho avuto il mio primo rapporto sessuale. E qua, oddio, vediamo se c’è ancora… sì la piazzola di mio padre e…”. Al posto del cespuglio di rose della madre una ciabatta rotta e una scarpa di bambino. Un velo di delusione. Me ne accorgo. Sono dispiaciuta. Sento che il mio rapporto con Valter sta cambiando. Ha smesso di essere gioioso a tutti i costi. Lo sento parlare piano. “Per molto tempo sono stato incerto sulla mia sessualità. Tra rom ci si sposa giovanissimi. Anche a undici, dodici anni. Io ne avevo diciassette, la nostra famiglia è di quelle ritardatarie. Lei l’ho conosciuta pochi giorni prima del matrimonio. Ci siamo piaciuti e lo abbiamo fatto. Io però ero innamorato di un uomo. Per più di otto anni lo sono stato”.
Mi sorride. Ce ne andiamo. Altro giro, altra meta. Passiamo solo pochi minuti in macchina, giusto il tempo di raggiungere l’altra parte della buca. Ed ecco, che accartocciato sulla strada, tra le code di automobili dirette verso la tangenziale e l’incolta radura, si trova il campo vero e proprio. Quello dei romeni. Valter va per primo. Uomini vecchi e giovani fanno da barriera. Scuotono la testa e mi guardano. Dalle baracche escono le donne, curiose e affaccendate. Mi concedono qualche foto di straforo. La percezione di essere un’ospite sgradita è forte. Flashforward. Alcune ore dopo. Poco distante dalla Falchera, ci appartiamo in giardini ‘più civili’. La conversazione si fa più intima. “Ho sempre saputo di essere omosessuale. Sin dall’età di undici anni. Anche se l’unica persona a cui l’avevo confessato era mia sorella Renata. Il mio coming out comunque non è stato voluto. Un ‘bastardo’ di amico giornalista ha sbandierato la mia omosessualità ai quattro venti su un giornale nazionale. Di me hanno letto tutti i cugini d’Italia. La comunità rom è molto simile a quella gay. Le voci circolano facilmente”.
La domanda sorge spontanea. “Rom, omosessuale, scardini ogni paradigma, come hai fatto ad integrarti così bene in un paese come l’Italia?”. “Le discriminazioni non sono certo mancate. Prima a scuola come rom e poi al lavoro, come omosessuale. Ho vissuto a lungo col terrore di essere incolpato per qualsiasi cosa. Mettevo le mani avanti ogni volta che venivo assunto. Sì, ho chiesto l’elemosina per pagarmi gli studi, i vestiti e qualche piccolo sfizio. Ma sono una persona aperta e onesta. Tutti mi devono conoscere per quello che sono veramente”. Scopro sul mio viso un sorriso amaro. Penso al peso che si prova nel convivere con uno stigma. Nel dover vivere dando spiegazioni. Poi alzo la testa. Lo guardo negli occhi, mi tornano alla mente tutte le ‘storiacce’ di sesso confidate e che ho dovuto candidamente omettere e scatta la risata. “Hii hiii, maledetta zingaraccia!”
Intervista tratta dal magazine Clash or Dialogue? parte del più ampio progetto realizzato in occasione della XV Conferenza Ilga-Europe che si è tenuta a Torino nel 2011.