C’è un uomo sulla spiaggia che assiste a un omicidio senza un battito di ciglia. È un uomo rassegnato, annoiato, finito. Il suo passo è stanco, le palpebre pesanti, la schiena ricurva. Quando il sole tramonta sull’esistenza è come se il nostro corpo cambiasse stato. Molle è l’aggettivo che meglio descrive quella rilassatezza data dall’assenza di speranza. Non c’è tumulto nell’animo per colui che si trascina spegnendosi come una fiammella. Eppure c’è in questo personaggio, portato sullo schermo da Tim Roth in Sundown di Michel Franco, in concorso a Venezia 78, qualcosa di straordinariamente vitale. Un desiderio inalienabile di assaporare la vita per quello che è: trovare il piacere e l’amore in un albergo di terz’ordine, afflosciarsi su una sedia in riva al mare, sorseggiare una birra feriti dalla luce. Ed è proprio questo elemento naturale che, insistendo sui nostri sensi, suggerisce un più ampio contesto di conflitto, in cui Acapulco diventa il microcosmo elettrico della spirale che risucchia tutto il Messico, tra diseguaglianze sociali, ora globali, e faide intestine. Sciami di turisti divorano la carcassa di un paese violento e diviso. Ma da questa irresponsabile ricerca dell’esotico talvolta si stacca qualcuno. Che, nel tempo sospeso del viaggio, intravede la possibilità di abbandonare chi era. Chiuso il passaporto in un cassetto, come può, si mette in cerca di una nuova identità. Forse di un’anima.
Ma Neil Bennett, il protagonista, non è un uomo qualunque. È uno degli eredi di un impero multimiliardario di macellazione e produzione di carne di maiale. Un ricco londinese in vacanza in uno splendido resort con la sorella e i suoi due figli. Franco sceglie con molta attenzione i dettagli che caratterizzano il personaggio, perché da quell’indolenza plumbea in cui lo immerge vuole distillare il senso dell’esistenza, entro uno scenario voluttuoso e sanguinario, dove i turisti sono prede da crivellare per una manciata di denaro. La critica sociale si muove su due registri: dal luogo, dove vige la legge del più forte e la violenza esplode improvvisa, alla tipologia di esseri umani che forgia la concentrazione del benessere nelle mani di pochi. Si tratta però di un film dove la dimensione collettiva si stempera per seguire, con uno sguardo carico di compassione, il percorso di un uomo: la sua rinascita, male interpretata dalla famiglia, abbandonata senza spiegazioni nel giorno della morte della madre, e il suo declino, il crepuscolo di una vita “senza nome”, in un ospedale spoglio, in un luogo lontano, in compagnia delle lacrime di una sconosciuta.
Franco si ritaglia ottantatre minuti non per fare la morale al mondo borghese e neppure per parlare approfonditamente del proprio paese, utilizza al contrario questi due spunti come sfondi per un dramma esistenziale che racchiude nel silenzio. La condizione di estraneità del protagonista, straniero in terra straniera, ma anche a sé stesso, fa da specchio a quella umana, all’impossibilità di definire con certezza il valore di una scelta. Anche di una fuga. Se da un lato, la furia di Alice Bennett (Charlotte Gainsbourg) e quella domanda reiterata: “Che cosa c’è di sbagliato in te?”, suonano come un doveroso richiamo alla coscienza e alla responsabilità, nel disinteresse di Neil nel fornire giustificazioni, leggiamo una frattura più profonda di una temporanea crisi familiare, un’incomunicabilità irrecuperabile, che nega ogni possibilità di convergenza e conciliazione.
Nonostante Franco tenga la camera piuttosto lontana dal personaggio, questo distacco non ci impedisce, anzi è un’occasione, per rendere più acuta, forse spietata, la riflessione. Non è la morte, come ne Lo straniero di Albert Camus, un destino comune? Agire ed essere agiti non sono due categorie che, di fronte alla complessità della vita, possono assumere un aspetto prismatico? L’errore che Neil compie nei confronti della famiglia non coincide anche col momento in cui inizia a reclamare un riscatto per la propria esistenza da sopravvissuto? Quando sui titoli di coda si avvicendano le domande, quando si esce dalla sala con posizioni fortemente contrastanti, significa che un autore ha assolto al proprio compito: regalarci l’opportunità di rispecchiarci e interpretare la storia di un essere umano da più angolazioni, sottraendoci al senso comune.