Quest’intervista più di altre è un viaggio, in un universo sincretico sospeso tra terra e cielo, in un Altrove personalissimo, popolato di incantesimi e leggende, dove realismo e magia, esotismo e mistero si incontrano. Protagonista è Francesco Cavaliere – con cui abbiamo chiacchierato in occasione del Festival Terraforma a Villa Arconati – con le sue alchimie sonore, le sue storie fantastiche e le sue innumerevoli ispirazioni, che vanno da Tommaso Landolfi a Octavia E. Butler, da Paracelso a Giuseppe Pitré, ai mondi di finzione di ieri e di oggi, in una perpetua ricerca della trasmutazione.
V: Definisci le tue composizioni dei “racconti sonori”. Durante il processo ideativo vengono prima le parole o la musica?
FC: Inizio col testo e successivamente lo sonorizzo. Ma non trascorre molto tempo tra i due momenti, talvolta avvengono simultaneamente, mentre rileggo ciò che ho scritto, compongo la musica. Le tracce sono aperte pur avendo un inizio e una fine. Spesso partono da una visione avuta nel dormiveglia e si sviluppano in episodi e capitoli, come in Gancio Cielo. All’interno della storia ci sono degli elementi in movimento, che costituiscono il passaggio da un episodio all’altro. Il lancio di una pietra rappresenta l’ingresso in una nuova realtà, in un mondo dove quest’oggetto viene percepito in maniera completamente differente. Questo cambiamento viene tradotto da una variazione del colore e della tipologia dei suoni.
V: Che genere di storie preferisci: avventurose, fantascientifiche, di viaggio?
FC: Sono una persona onnivora. Leggo e guardo di tutto. Posso passare da un giallo a un mistery di Roald Dahl, al realismo magico di Tommaso Landolfi. Mi interessa far incontrare la realtà con l’Altro e con l’Altrove. Non si tratta di una riflessione di genere ma è una questione di sguardo, una necessità di sfasarla, per renderla più incerta. Mi piace mettere in crisi la razionalità, esattamente come fanno le ombre, che incantano nel dubbio, lasciandoti lì, cercando di risolverlo.
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V: La figura e l’immaginario dei cantastorie sono una tua fonte di ispirazione?
FC: Direi di sì, ma non c’è premeditazione. Ho sempre scritto, da quando ho sentito l’esigenza di far incontrare la parola con la voce e i suoni, per raccontare delle storie. Non conosco molto il passato dei cantastorie italiani, anche se successivamente mi sono informato sul loro lavoro. Non volevo essere così arrogante da intraprendere una strada che altri avevano percorso in maniera più approfondita, allo stesso tempo non volevo irrigidire eccessivamente il mio percorso.
V: Ascoltandoti mi è venuto in mente Visage, di Luciano Berio (1961). Rappresenta per te un riferimento, per questa tensione quasi mimica relativa al lavoro sulla voce? Quali esperienze e ascolti, passati e contemporanei, sono stati determinanti?
FC: Nella mia formazione ci sono stati molti ascolti dove la parola era protagonista, dai radiodrammi all’opera, per intenderci. Però l’utilizzo marcato e mimico della voce è un’attitudine caratteriale, un modo di relazionarmi con gli altri, di apprendere o di inventarmi delle lingue e dei linguaggi. Anzi devo ammettere che l’interesse è partito dalla registrazione e dallo studio della voce altrui e successivamente si è rivolto alla mia, nel momento in cui ho iniziato a conoscere meglio me stesso.
V: Che strumenti utilizzi per creare i tuoi suoni? Tradizionali o costruiti da te?
FC: Di tutti i tipi: classici, costruiti da me, elettroacustici. Mi piace ricreare dei fenomeni sonori e registrarli: degli elastici che tiro in una stanza vuota, un bambù su una pietra, l’accensione di cerini, esattamente come un foley artist. L’esigenza di utilizzare oggetti sonori nasce dal desiderio di allontanarmi dagli strumenti tradizionali. All’inizio erano molto semplici, delle casse di risonanza, corde, molle per reverberi. Naturalmente non sono stato il primo a trovare questi tipi di espedienti, però per me rappresentano delle alternative con cui giocare.
V: Un po’ come le Macchine Inutili di Bruno Munari?
FC: Sì, ci sono molte similitudini con questo concetto. È difficile pensare che le strutture che mi invento possano suonare. Le immagino come degli strumenti musicali invisibili, capaci di far parlare gli oggetti inanimati – come per esempio una statua – che altrimenti non potrebbero essere rappresentati attraverso il suono.
V: Da un punto di vista narrativo, come moduli la relazione tra questi elementi?
FC: È una questione di tensione tra musica, parola, spazio, silenzio e attesa.
V: Come ricrei l’attesa?
FC: Con dei tagli. Quando sviluppi la traccia e raggiungi il momento di picco, il modo più semplice per interrompere l’ascesa e l’evoluzione sonora è compiere un taglio, inserendo un vuoto. Ma si può ricreare una sensazione analoga anche con le parole, isolandone una dal contesto e lasciando che si imprima nella mente, prospettando un seguito che non è immediato.
V: Capogiro degli Dèi, si muove tra reale e virtuale, tra immaginari fiabeschi e melancolia giapponese. Ti interessa questo incontro?
FC: Capogiro degli Dèi è un mix che ho realizzato per un blog giapponese, EBM (T), che è anche una galleria virtuale, dove vengono invitati degli artisti a scrivere dei saggi brevi accompagnati da dei contributi sonori. Mi hanno chiesto di sviluppare un’idea che fosse in linea con la mostra in corso al museo di arte contemporanea di Tokyo, M.O.T., sulla falsariga di Musica Virtuale ™. Il tema era il Giappone degli Anni Ottanta e dei primi Novanta, con tutto il suo immaginario legato al mondo degli anime. Sul virtuale ci sono artisti e musicisti che hanno sicuramente approfondito l’argomento prima e molto più di me, per cui la mia riflessione è stata scherzosa, cercando di fare il punto sull’oggi, su dove siamo arrivati e diretti. Anche lo stesso titolo Capogiro degli Dèi, è metaforico e indica la condizione eccedente nella quale viviamo, che è così al limite da provocare una destabilizzazione persino degli Dèi. Negli ultimi anni mi sono chiesto più volte come potevo definire la mia musica e cosa stessi esattamente producendo. Faccio musiche per mondi che non esistono, sonorizzazioni di storie che mi invento, colonne sonore per universi che appartengono esclusivamente alla mia mente. Quindi, a un certo punto, mi sono semplicemente accorto che stavo facendo della musica virtuale: musica che nasce dall’immaginazione. Così ho iniziato a esplorare il lavoro di chi prima di me si era dedicato alla composizione e alla produzione musicale per mondi di finzione.
V: Quindi tutto nasce da Musica Virtuale?
FC: Sì, all’interno di quel mix ho introdotto molte tracce mie, sovrapponendole ad altre, di film e videogame appartenenti a varie culture: estone, russa, italiana, giapponese. L’idea era realizzare un archivio di gran parte della musica per mondi di finzione che mi piaceva. C’è un po’ di tutto, da Oscar Sala a Oliver Messiaen, dalla classica contemporanea al pop, fino alle colonne sonore di cartoni animati greci.
V: L’esotismo è un altro aspetto importante nel tuo lavoro?
FC: Non del tutto. Nel senso che più che una scelta di contenuti “esotici” riguarda la mia vita. Vivo da molto tempo con una ragazza di origini egiziane-austriache, Leila. Credo di aver assorbito molto della sua cultura. All’università ho studiato etnomusicologia, ma ad esempio l’interesse per la musica pop e folcloristica algerina, egiziana, magrebina, deriva dalle mie esperienze personali.
V: Quali sono le tue influenze ricorrenti?
FC: Sicuramente Tommaso Landolfi. È uno scrittore che ho scoperto circa quattro anni fa e mi ha radicalmente sorpreso, perchè si avvicina molto a ciò che cerco e che voglio ricreare col mio immaginario. Nei suoi libri c’è una presenza altalenante tra scrittura alta e forme dialettali, realismo e finzione; situazioni che sono al limite tra reale e fantastico. La pietra lunare per esempio, è una singolare avventura. Un paradossale viaggio mentale del protagonista, in seguito all’incontro con una sensuale ragazza dalle gambe caprine.
V: Quindi il surrealismo presente nei tuoi lavori è più magico che onirico?
FC: Sì, come ho detto, il realismo magico è una grande fonte di ispirazione e anche un certa visione della medicina che non è esclusivamente scientifica bensì che sfocia nella credenza popolare. L’ho ritrovata anche in Giuseppe Pitré, etnografo, studioso del folclore e medico, la cui lettura mi sta appassionando molto.
V: Hai una concezione animista della Natura?
FC: L’animismo fa parte del mio lavoro, da quando componevo musica a quando facevo le perfomance. Ho sempre provato per gli oggetti una forma di feticismo e venerazione, immaginando che avessero una vita propria, interna. Anche nei lavori più scultorei e visivi ricerco questa suggestione.
V: Che importanza riveste l’alchimia nel tuo immaginario?
FC: Ne sono affascinato a tal punto che recentemente ho iniziato a leggere Paracelso, I nove libri sulla natura delle cose. Mi interessano molto le mutazioni e le trasmutazioni, le teorie sulla rianimazione del corpo, e in generale una visione più magica della medicina, tipica della cultura popolare, soprattutto nel sud Italia.
V: In Gancio Cielo #1 abbiamo un mondo ordinario che evolve in uno straordinario. Perchè avviene questa trasformazione?
FC: Per via di un incantesimo, che non viene rivelato immediatamente. Nel corso della storia si scopre l’esistenza di un prescelto, appartenente alla famiglia degli Exwuiter. Il palmo della sua mano ha subito una mineralizzazione, a cui sono seguiti un distacco, la formazione di un ovale e un innesto nel suolo. Questo innesto velenoso ha comportato una trasformazione climatica. Svariati personaggi si sono messi sulle tracce di questa agata, per fermarla e disinnescare l’incantesimo.
V: L’incantesimo è positivo o negativo? Oppure non ha una connotazione precisa?
FC: L’incantesimo mette a confronto e oppone due tipi di nature. È positivo per le creature che si sono sviluppate dopo la sua apparizione, mentre è nocivo per le specie precedenti. Dopo l’innesco hanno fatto la loro comparsa tipologie diverse di flora e di fauna, che sopravvivono in armonia col mondo trasformato. L’incantesimo quindi non è né positivo né negativo, il suo impatto dipende da chi lo vive.
V: Che cosa succede quando la pietra finisce nell’Altro mondo?
FC: Quello che viene considerato l’Altro mondo, è la parte della storia da cui sono partito. Ho scritto prima il secondo capitolo del primo, perchè avevo in testa questa immagine di squadroni di personaggi che rifrangevano comete. Nel primo capitolo la pietra viene lanciata oltre un confine, nel secondo approda in un contesto dove ogni giorno piovono pietre dal cielo. In questo scenario ci sono tutt’altro tipo di equilibri e di personaggi: quelli che rifrangono le pietre, quelli che clandestinamente le raccolgono, gli scienziati che le studiano e le catalogano.
V: La pietra è un oggetto che proviene dal futuro oppure appartiene a un mondo magico-alchemico?
FC: Si tratta di una malattia. È un veleno, una sostanza che si è originata dal corpo di una persona che ha subito un incantesimo e una successiva mineralizzazione del palmo della mano. Il fatto che venga scagliata oltre un confine rappresenta la necessità di espellere qualcosa che sta facendo male.
V: Che rapporto esiste tra alchimia e fantascienza? Oppure preferisci parlare di fantastico?
FC: Non sono un fanatico della fantascienza, o almeno non in senso tradizionale. Mi piace molto Octavia E.Butler, sto leggendo ora The Xenogenesis Trilogy, che, in accordo con lei, definirei più vicina al fantastico e lontana dai temi cardine del genere. L’aspetto interessante del suo lavoro, che si inscrive tra biopunk e afrofuturismo, è che lei parte dal corpo. Se si parla di una nave, non rappresenta un oggetto meccanico, ma un prolungamento del corpo. E affronta frequentemente il tema della biotecnologia, che a me interessa molto. Infatti, tutte le copertine di Gancio Cielo sono dei micro-organismi ricavati da libri di biotecnologia, re-immaginati e ridisegnati.
V: The Xenogenesis però è una trilogia. È una direzione che ti interessa percorrere anche per le tue storie?
FC: Dal punto di vista della scrittura direi di sì, anzi, immagino un’opera più lunga di una trilogia. Sulla musica invece ho qualche perplessità, temo che la reiterazione di queste dinamiche elettroniche mi possa stancare. Non riuscirei a comporre un terzo capitolo utilizzando gli stessi elementi musicali dei precedenti, nonostante quando si parli di serialità la ripetizione sia essenziale. Questo dialogo tra musiche cellulari elettroacustiche e parola è una combinazione che ha richiesto tempo per essere messa a punto. Ho iniziato a lavorarci tra il 2012 e il 2013, un periodo in cui il discorso sulla voce era un po’ assopito. Oggi invece riscontro un grande ritorno di interesse su questo argomento. Sponken word, lingue di diverse, reading, sono tra le richieste principali che mi vengono fatte dai produttori. Un risultato che ritengo importante, perchè significa che il disco ha avuto una sua funzione rivelatrice.
V: Qual è la genesi del titolo Gancio Cielo?
FC: È nato inizialmente come uno scherzo, chiacchierando con con Simone Trabucchi di Hundebiss, mentre stavamo cercando il titolo per l’album. È un termine che deriva dalla pallacanestro e si riferisce ad un famoso tiro del giocatore Kareem Abdul Jabbar. Allo stesso tempo da un punto di vista immaginario, mi rimanda a una sorta di uncino attaccato a una nuvola, una corda che unisce la terra e il cielo. Ho pensato che fosse molto evocativo e adeguato a suggerire il passaggio dimensionale che avviene attraverso il lancio della pietra oltre la barriera cosmica che separa i due mondi, che sono poi i due capitoli dell’album.
V: Lavorando sulla voce hai la possibilità di interpretare più personaggi nelle tue storie. Quanti ce ne sono in Gancio Cielo? Ho notato che alcune volte sono ben distinti e riconoscibili mentre altre si confondono. Con che criterio li isoli e li fai convergere?
FC: In Gancio Cielo #1, ci sono almeno cinque personaggi, più un narratore onnisciente. Per dare a ciascuno un’identità, inizialmente avevo pensato di assegnarli a degli attori, poi ho cambiato idea e ho deciso che li avrei interpretati io. Volevo che questo disco fosse interamente mio, perché nasce dall’esigenza di scoprirmi e di tirare fuori quello che avevo dentro. Mi ci sono voluti tre anni per scrivere e comporre tutto da solo. Questa scelta ha determinato alcuni cortocircuiti, inducendo una certa indistinguibilità che è molto marcata dal vivo. I personaggi e la voce narrante spesso si mischiano, altre volte sono riconoscibili esclusivamente a partire dal tono: più freddo per le figure più autorevoli, più vicino alla mia voce reale, per i “due occhi”, i personaggi umanoidi. Da un punto di vista tecnico non sono ricorso a troppi sound effects o virtuosismi, ho preferito lavorare sullo spazio, a partire dallo spostamento a destra e a sinistra del pan. Ascoltando attentamente il disco, si nota come la provenienza della voce rappresenti una forma di distinzione narrativa. Ho mantenuto la voce più naturale possibile, per incrementare l’effetto mimetico e lo spaesamento. Si possono fare grandi cose con il solo uso del microfono e l’amplificazione della voce, Carmelo Bene in questo è stato un maestro.
V: Soffio che scotta alla Marsèlleria, è stato un tentativo di visualizzare e tradurre concretamente la sperimentazione sonora di Gancio Cielo. Come ha preso forma questa traslazione?
FC: Ho collaborato per un po’ di tempo con Xing di Bologna, che ha prodotto parte del mio lavoro. Con loro ho realizzato le perfomance di Gancio Cielo #1 e #2, da cui successivamente è nata l’idea di una mostra che abbiamo intitolato: Soffio che scotta. Usi e credi del Gancio Cielo, che puntava a svelare e materializzare il suo immaginario, soprattutto le leggende e le credenze che danno un senso ai capitoli. Così ha preso forma questo micro scenario composto da corde, assimilabili a serpenti e bussole, per orientarsi nei mondi paludosi del racconto. Il tempo era scandito da un metronomo fuori fase, che ho definito “incantatore di campanelle”. Ad un certo punto avevo deciso anche di far tradurre l’incantesimo della pietra e una leggenda su degli arazzi. Non arrivarono in tempo per la mostra sfortunatamente, ma oggi sono ancora visibili alla Marsèlleria. È stata una bella esperienza, soprattutto perché mi sono dovuto impegnare nel rendere tangibile tutto ciò che nel disco funziona sul piano della suggestione e dell’astrazione.
Intervista pubblicata su Espoarte.