Avete mai pensato che essere un buon uomo non sia una buona cosa? Mancare totalmente della spinta, della curiosità, della necessità di sporcarsi le mani con la ferocia, con l’odio, con la vendetta. E avete mai pensato che la pietà e l’umiltà tutto sommato siano dei valori inadeguati quando si cercano risposte sul nostro essere umani? Ultimo, ma non per importanza: avete mai pensato che un motivo futile nasconda una frattura ben più grande di una lite, un conflitto tra due concezioni diametralmente opposte della vita? The Banshees of Inisherin, presentato in concorso a Venezia 79, è forse il film più criptico di Martin McDonagh. Non è semplicemente la storia di un uomo, Colm, smarrito in mezzo al nulla, che improvvisamente smette di parlare al suo più caro amico. E non è neanche la storia degli innumerevoli e goffi tentativi di riappacificazione di Padraic, l’animo semplice che vive in comunione con la natura e gli animali, in un villaggio in cui il tempo sembra non esserci mai stato. The Banshees of Inisherin è un film invece in cui due prospettive temporali imprescindibili per l’essere umano si incontrano. Il tempus fugit, la paura della morte di Colm, che ad un tratto si ritrova vinto dall’urgenza, in tutta la sua imperfezione, di lasciare qualcosa dopo di sé, sprofondato in una depressione che gli presenta il conto del “Chi sono io”? E quella della trascendenza, lo sguardo del finale, la domanda ultima di fronte all’immensità della Natura: “A chi importa degli affari degli uomini”? In mezzo c’è un film inaspettato, comico, tragico, violento, dolcissimo, in cui un uomo perde l’innocenza e l’altro la riconquista.
Il tempo storico in cui si dispiega la storia è quello della Guerra Civile irlandese, che nell’aprile del 1923 sta per volgere al termine. Gli spari di cannone in lontananza non turbano la vita lenta e monotona degli abitanti di Inisherim, ma rappresentano un efficace contrappunto che ci consente di dare una lettura politica alla storia, interpretando il conflitto tra Colm e Padraic come una lotta fratricida. Il commediografo, regista e sceneggiatore britannico di origini irlandesi, sembra infatti muoversi, con questa ultima opera, nella direzione dello scavo nella memoria, avendo due punti fermi sul piano drammaturgico, ovvero William Shakespeare e Samuel Beckett. L’assurdo pervade la narrazione, trasformando i cieli plumbei e le scogliere irlandesi in un set teatrale perfetto, dove Colm e Padraic, non si comportano in maniera troppo dissimile da Vladimir ed Estragon di Aspettando Godot. Nel tempo dilatato dell’attesa devono trovare un modo per ammazzare la noia, così li vediamo lamentarsi, litigare, lanciare sfide e ribellarsi, rimanendo sempre dipendenti l’uno dall’altro. Colin Farrell e Brendan Gleeson, coppia iconica di In Bruges, tornano a lavorare insieme, ma questa volta l’uno non si immola per la vita dell’altro, per dargli una seconda possibilità, al contrario punta ostinatamente verso l’autodistruzione. La direzione tragica, viene mitigata e allo stesso tempo sottolineata dalla caratterizzazione di questa coppia. Per quanto Colm sia più riflessivo e introspettivo mentre Padraic gonzo e di buon cuore, ciò che li accomuna è l’ignoranza contadina: la limitatezza degli slanci artistici, delle argomentazioni di discussione, dell’intelligenza e anche dello sfoggio di cultura.
Non sarebbe però un film di Martin McDonagh se il precipitare degli eventi non fosse guidato da una trovata originalissima. La perentorietà della scelta di Colm fa leva su un ultimatum: l’automutilazione. Increduli e con gli occhi sgranati, lo vediamo tagliarsi un dito e lanciarlo contro la porta della cottage di Padraic, ogni volta che lui stupidamente cerca di ricucire il rapporto. Dice bene Dominic, un tenero e volgare Barry Keoghan, nei panni del folle del villaggio, a proposito della insensatezza di tutta la faccenda: “Quanti anni ha 12?”. Il comportamento di Colm confligge infatti con le sue ambizioni artistiche, decisamente poco serie, ma sbandierate per prendere le distanze dal noiosissimo e gentile Padraic, capace di parlare per ore della cacca della sua asinella. Non è un caso che questo personaggio così resistente alla trasformazione sia costretto ad agire quando il gioco al massacro provoca la morte proprio di Jenny (l’asina). In realtà è tutto il piccolo mondo di Padraic a sgretolarsi lentamente, non potendo più rappresentare quell’immutabile sfondo su cui si stagliava la sua identità: l’amico che non gli parla più, la sorella intellettuale che riesce ad abbandonare quel luogo dimenticato da Dio, la morte dell’animale a cui lui era più affine e la consapevolezza che tutto il villaggio ride di lui.
Questa improvvisa presa di coscienza, unita alla ferita della morte e a quella dell’abbandono, lo spingono verso reazioni incontrollate. Padraic incapace di gestire questo vortice di emozioni mai provate prima, si abbandona al lato più oscuro, macchiando e perdendo la sua innocenza. Il movimento opposto è quello di Colm, che realmente afflitto dall’aver provocato involontariamente la morte (il tema della colpa involontaria era centrale anche in In Bruges) di un animale che l’amico considerava come un famigliare, inizia il suo percorso di redenzione e di riconquista di uno sguardo puro sul mondo. Non è un caso che nel finale il confronto di sguardi sia antitetico rispetto all’inizio. Quello sferzante di Colm si carica ora di pietà e cordoglio, e percorso da una luce bonaria che parla di un affetto ritrovato e che non può essere troncato, si scontra con l’opacità, l’impossibilità e l’incapacità di perdonare che bruciano negli occhi di Padraic. Le sorti sono invertite ma potrebbe non esserci alternativa alla solitudine. Il dramma che conclude la storia di questi due uomini smarriti in un nonluogo “fantastico”, che aspettano (come tutti) un cenno della vegliarda dalla schiena ricurva, è la reale mancanza di una risposta al perché sia accaduto.