Ci sono temi che rappresentano dei tabù. Sarà per questo che solo ora sentiamo il bisogno di esplorarli sul grande schermo? Se ci siamo abituati col tempo, non senza ferite, a padri assenti, violenti, bugiardi, incapaci di relazionarsi con i figli e di esprimere le proprie emozioni (in realtà non si è scavato abbastanza anche nella loro identità e nel loro sentire), decisamente maggiore è stata la reticenza nell’indagare la maternità, da un punto di vista femminista e femminile. Che cosa significa essere madre? Abbiamo ancora bisogno di credere che l’amore di una madre sia incondizionato? Quando rivestiamo il ruolo di madre, in che modo possiamo preservare non solo la donna, ma la concretezza della nostra natura di individui, esseri umani desideranti, bisognosi di esperienze e sentimenti altri? Quante madri ci sono là fuori che si sentono lacerate dall’ambiguità e dall’ambivalenza di ciò che provano per i propri figli, senza trovare lo spazio e il coraggio di parlarne? Quante madri hanno giudicato e castrato se stesse per aver detestato la propria condizione?
Non importa se intraprendiamo la strada della maternità con ingenuità o consapevolezza, la verità è che nessuno può sapere cosa accadrà. Come saranno i nostri figli, se ci piaceranno, quale relazione riusciremo a costruire con loro. Se una volta cresciuti ci ameranno. Nei rapporti si è sempre in due. Non è una questione di età, anche i bambini possono abusare degli adulti. Anche i genitori possono sentirsi consumati, fagocitati dai propri figli. Spesso si usa il ricatto emotivo dell’“egoismo” per silenziare la complessità dei rapporti umani, ancor più quelli familiari. Ma se un giorno, abbattendo questo muro di ipocrisie, riuscissimo a realizzare il nostro desiderio di fuga, che ne sarebbe della nostra integrità? Guardandoci allo specchio riusciremmo a portare il peso di non essere state delle buone madri? La colpa soggiace e troneggia nel film di Maggie Gyllenhaal, The Lost Daughter, esordio alla regia e libero adattamento de La figlia oscura di Elena Ferrante, in concorso a Venezia 78, e prende le sembianze di Olivia Colman, che interpreta Leda, una donna di quarant’anni, improvvisamente costretta a confrontarsi con vecchie cicatrici, con la scelta compiuta in giovane età di abbandonare le proprie bambine, per seguire le proprie ambizioni e vocazioni.
Leda, docente universitaria di letteratura comparata, divorziata e con due figlie, trascorre una piacevole vacanza taciturna e solitaria, in un’isola della Grecia (al posto dell’Italia, territorio d’elezione del libro della Ferrante), fino a quando la spiaggia in cui si trova non viene invasa da una numerosa e chiassosa famiglia del Queens. Tra schiamazzi e boria criminale, che trova profondamente inopportuni, ad un tratto intravede una giovane madre, Nina, con la figlia, per la quale sviluppa una progressiva forma di ossessione, dovuta al rispecchiamento. Il rapporto morboso e talvolta violento, che la Gyllenhaal restituisce con inquadrature strettissime e soffocanti, tra la madre e la bambina, le riporta alla mente quello travagliato con le proprie figlie e quel turbolento periodo della vita in cui ogni decisione pare calpestare l’altra, in una feroce lotta per la ricerca e l’affermazione della propria identità. La storia che procede con un continuo parallelismo tra presente e passato, caricandosi di tensione come si trattasse di un thriller, comincia con uno svenimento di Leda in riva al mare di notte, che fa presagire il percorso quasi distruttivo intrapreso dalla protagonista nell’incapacità di perdonarsi e accettarsi. Ma il vero cuore del suo disagio si traduce nel furto della bambola di Lena, la figlia di Nina e nel tentativo di nasconderlo. Un gesto incomprensibile, oscuro, che diventa il simbolo del carattere irrazionale delle scelte umane e di come le donne vengano educate alla maternità sin da bambine, dovendosi scontrare poi nella vita anche con gli aspetti “mostruosi” di questa misteriosa esperienza.