Possiamo mentire, ma non ci possiamo tradire. Cosa accade nella mente di un autore quando sceglie di adattare una storia scritta da qualcun altro, è il distillato di un mistero. Quello su cui abbiamo puntato il nostro sguardo durante la visione di The Power of The Dog, il film in concorso a Venezia 78, tratto dall’omonimo romanzo del 1967 di Thomas Savage, con cui Jane Campion ha rotto il silenzio, tornando alla narrazione cinematografica dopo un decennio, interrotto solo dall’intermezzo dell’enigmatica serie Top of the Lake. Passaggio cruciale per quella variazione che l’ha condotta verso l’approfondimento di una specifica tipologia di personaggi maschili. Ma perché abbiamo usato la parola “tradire” a proposito del suo nuovo film? Perché per la prima volta la Campion sceglie di guardare un personaggio femminile con uno occhio diverso, che non è il suo, un compromesso tollerabile forse esclusivamente in funzione di una storia costruita su un sistema di relazioni erotico-psicologiche che vede opporsi diverse triangolazioni, e con al centro un protagonista quasi “demoniaco”, ma insospettabile, rispetto ad un antagonista profondamente respingente, su cui convergono tutte le sue energie. Potremmo dire che la storia comincia con un gioco delle coppie. Da una parte i fratelli Phil e George Burbank, proprietari di un grande ranch nel Montana degli anni Venti (probabilmente la Nuova Zelanda nella realtà), dall’altra la vedova Rose e il figlio Peter, un ragazzo dall’aspetto femmineo, troppo sensibile e fragile, come le composizioni floreali di carta a cui si dedica, per quel mondo rozzo e selvaggio, duro e cinico, che definisce l’immaginario classico del western.
https://www.youtube.com/watch?v=ELvKuuXdfCU
Diversi sono i riferimenti letterari, cinematografici, seriali che si accavallano nella mente analizzando i personaggi tratteggiati dall’autrice neozelandese. C’è un po’ della Blanche DuBois di Tennessee Williams, del suo delirio e del suo rapporto, caratterizzato dalla repressione sessuale, con Stanley Kowalski, in Rose; un po’ dello stato di abbandono e di isolamento di Una moglie di Cassavetes; c’è un’aura maledetta e decadente che richiama il Dorian Gray di Oscar Wilde in Peter; c’è quella psicosi sessuale con cui si guarda alla figura del cowboy nella fortunata serie I Love Dick, (ma spogliata di quella leggerezza) e l’omoerotismo tra cowboy, anche in questo caso in parte represso, di Brokeback Mountain nel rapporto tra Phil e il giovane Peter. Il personaggio su cui punta tutto la Campion però è l’antagonista Phil, interpretato da Benedict Cumberbatch, iconico nel suo machismo, sottilmente sadico e incline alla tortura psicologica, la cui omofobia si accompagna a comportamenti di potere e gelosia prima di tutto nei confronti del fratello. Non è un caso che l’equilibrio si rompa proprio quando George sceglie di sposare Rose e aprire la sua dimora a lei e al figlio. La costrizione del luogo porta i personaggi a scontrarsi attraverso ripetute provocazioni ed estenuanti conflitti che tengono a lungo la situazione apparentemente in stallo (in realtà il logorio psicologico è inesorabile e senza ritorno), ed in particolare spingono Phil ad esercitare quel controllo e quella tirannia arrogante e beffarda che diventano l’oggetto di un fascino perverso per Peter, che lentamente rivela la sua doppia natura, la sua appartenenza all’archetipo del mutaforma.
Se è vero che la Campion per la prima volta ci presenta una donna nel ruolo della vittima che non si emancipa, che non è protagonista e si accartoccia su se stessa, non bisogna commettere l’errore di perdere di vista la questione femminile nel suo cinema. Al contrario è proprio il rapporto di Peter con la madre a dare al film quello spessore psicoanalitico che fa quasi dubitare del suicidio del padre. Se Rose teme l’amicizia virile che si instaura tra il figlio e Phil, in cui vede una possibile causa di corruzione, di deviazione dalla sua educazione, è lo stesso Phil a commettere l’errore di sottovalutare Peter, la sua strategia di assimilazione, crogiolandosi nell’idea di essere un modello, come lo era stato Bronco Henry per lui. La storia prende una piega progressivamente più nera da quando Rose inerme cede completamente all’alcolismo e Peter inizia a manifestare la sua vocazione di medico, sentendo il richiamo della carne e del sangue, in maniera forse più distante dalla Natura di Phil, che da un lato continua ad affermare la sua virilità castrando il bestiame a mani nude, dall’altro cede alle lusinghe languide del ragazzo aspirando dalle sue mani una sigaretta come fosse profumo, mentre intreccia quel lazzo che sarà la causa del suo amaro destino. Sarà il solo? Peter di spalle nel finale aperto, mentre osserva dalla finestra la madre e George finalmente liberi di amarsi, fa risuonare nella nostra mente un ghigno beffardo.