Se il cinema è rispecchiamento saranno felici tutte le giovani donne millennial, la loro (la nostra) brama di personaggi femminili sfaccettati, incerti, liberi, femministi ma non troppo, quel tanto che basta per restare immancabilmente “forever young”, fortunate con gli uomini ma incapaci realmente di amare, perché troppo occupate a capire da che parte siano girate ma soprattutto spinte dagli eventi a crescere, maturare e trovare (forse) la propria strada un po’ più in là, con gli anni, e poi capaci di arrendersi inevitabilmente al destino: vivere sole. Il nuovo film del regista e sceneggiatore norvegese Joachim Trier, The Worst Person in the World, in concorso alla 74esima edizione del Festival di Cannes è una commedia, a tratti amara, con qualche trovata alleniana nei dialoghi e una protagonista, Julie (Renate Reinsve), acuta, brillante, piena di talenti ma con un piccolo, ‘trascurabile’, difetto: sospendere praticamente sempre la ragione e seguire l’istinto, o più semplicemente il momento, senza figurarsi un futuro. Una casa, una famiglia, dei figli, un lavoro che la gratifichi. Julie è trascinante, gli uomini lo comprendono, ma perennemente insoddisfatta.
Lo è dal “vampirismo” iniziale (continua a cambiare studi perché non collimano con i suoi sogni o per portarsi a letto uomini diversi?) alla festa in cui si imbuca, dopo aver litigato col fidanzato Aksel (Anders Danielsen Lie), più grande di lei, graphic novelist di successo, satirico, scorretto, tanto da attirarsi le ire delle post-femministe (anche in questo caso essere autori nordeuropei aiuta, si è sul pezzo con l’attualità e tutto viene concesso!) e aver finito col pisciare insieme a uno sconosciuto, Eivind (Herbert Nordrum), dopo essersi annusati reciprocamente le ascelle, in un gioco di seduzione che si conclude in nulla. Salvo poi incontrarsi di nuovo, per caso, e cominciare una relazione infuocata, destinata a finire per un figlio (grande tema di conflitto anche col precedente fidanzato ed emblema del tiraculismo indietro di Julie, che proprio non ne vuole sapere di diventare madre) capitato, a tratti desiderato, alla fine mai nato? Insomma Trier, di cui ricordiamo il recente dramma lesbico con toni soprannaturali, Thelma (2017), molto bergmaniano ma allo stesso tempo caratterizzato da quella passione per gli effetti digitali (presenti anche nella sua ultima opera), che finiscono per contaminare il cinema col linguaggio della pubblicità, va dritto al punto nel raccontare una storia dei nostri tempi, di una generazione stretta nella morsa del “chi voglio essere?”, dove Aksel, che ha fatto della sua passione il lavoro della vita, senza orari, colleghi e rigide etichette, e Eivind, commesso in una caffetteria senza particolari ambizioni, sono due facce della stessa medaglia: diventare uomini seguendo semplicemente i propri desideri e senza dovere più nulla alla generazione dei padri.
In mezzo però c’è Julie, lei è l’unico elemento in conflitto, quella che si sente inadeguata, che problematizza la maternità tanto quanto il sesso. Fare un pompino si addice a una femminista? Scrive al riguardo un articolo brillante. Quella che prima di essere donna, si sente la persona peggiore del mondo, perché la sua vita sembra essere un immenso buco nero: non si vede nulla all’orizzonte, non si conosce la destinazione e ogni scelta sembra tornare indietro con delle responsabilità che non si sente pronta ad affrontare. Nonostante ciò il flusso continua e dopo aver vissuto gli ultimi momenti intensi della vita di Aksel (malato di un tumore incurabile) arriva il giorno in cui si ritrova faccia a faccia con un’altra Julie, mentre su un set, come fotografa di scena, deve ritrarre un’attrice commossa. Quegli occhi bagnati continuerà a guardarli sullo schermo del suo computer, senza versare una lacrima, con un mezzo sorriso stampato sul volto, ancora una volta pensando al destino (l’attrice è la nuova compagna di Eivind, con cui ha un figlio), mentre nel silenzio della sua casa, finalmente conquistata, trova la pace in se stessa, suo malgrado o per fortuna, come donna diversa.