Mentre tutti gridano all’orrore, noi gridiamo all’apatia. Perché il vero merito di The Zone of Interest di Jonathan Glazer, presentato nella sezione Best of 2023 della diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma, è averci privato delle emozioni viscerali, come la rabbia. È un “piacere” raro e dissacrante non provare alcuna empatia per gli esseri umani. Così la sedia scricchiola, la noia prende il sopravvento e ci troviamo completamente in disaccordo con Paul Schrader che ha visto nel film di Glazer un’attualizzazione dei suoi discorsi sul trascendente nel cinema, perché il valore dell’opera del cineasta britannico consiste nel non dire niente di più di ciò che mostra. La morte e l’atrocità di Auschwitz sono lasciate fuori campo, oltre il muro di quella “zona di interesse” (il mondo ordinario) su cui si concentra lo sguardo del suo autore, che è la casa, ovvero lo spazio privato, di un ufficiale delle SS e di sua moglie. Anche a noi interessa poco di ciò che accade e che non vediamo, proprio come ai personaggi, perché prendere le distanze dal corpo, cancellare il peso della carne, significa esplorare la gamma emotiva dell’indifferenza. Non è un caso che il lavoro sulla colonna sonora di Mica Levi passi quasi inosservato, a paragone dell’impegno profuso in Under The Skin. Dubitiamo di ritrovarci alla Grote Kerk de L’Aia al Rewire di fronte a un’orchestra che la reimmagina, con il profilo del corpo di Scarlett Johansson sullo sfondo, annegato nel rosso vermiglio. Se è ancora vera la dichiarazione rilasciata a Pitchfork secondo cui “la musica è molto più del sangue di un film”, abbiamo bisogno di una trasfusione, perché stiamo morendo. Col Nazismo è morto l’essere umano.

The Zone of Interest, Jonathan Glazer.


“Non entrare nel mio giardino”. 
Ognuno di noi ha uno spazio segreto, un luogo dell’anima dove ricerca la pace. L’idea dell’Eden, del paradiso terrestre, ha assunto diverse forme nella letteratura, nel cinema e nella vita di tutti i giorni. Quando si parla di città e di gentrificazione, non si fa altro che ridefinire questo concetto, che si fonda sull’esclusione. Potremmo dunque dire che l’ordinarietà della relazione tra l’ufficiale delle SS Rudolf Höss e sua moglie Hedwig, il bisogno di salvaguardare l’idillio familiare medio borghese, quello spazio recintato e ovattato, circondato da nuvole nere in lontananza, che sono corpi che bruciano (nell’immaginazione), è il prodotto di questa morte interiore, della radicale fobia per l’Alterità. Si torna animali in divisa, tra le scartoffie e la burocrazia, tra il carrierismo e la bellezza di un fiore, questo suggerisce Glazer, componendo quadri e scene che raccolgono l’eredità dell’Oggettività in fotografia. Lo scandaglio riguarda sentimenti rimpiccioliti: la mia famiglia in aperto contrasto col concetto universale di Famiglia, il mio amore opposto all’Amore, la mia quiete in antitesi al calvario dell’Altro da Sé. Muri fisici o ideologici, visibili o invisibili, su questo siamo chiamati a riflettere: sull’innato bisogno di creare frontiere, non solo sul Nazismo.

The Zone of Interest, Jonathan Glazer.

Mentre ci anestetizza e ci risveglia con perturbanti inserti spettrografici – ci appaiono così i negativi, che ritraggono azioni fanciullesche di una pseudo Alice nel Paese delle Meraviglie, recuperando dalla memoria Spectrographies di Dorothée Smith, opera ibrida recensita in occasione de Les Rencontres Internationales a Berlino nel 2016 – Glazer ci spinge verso un finale indimenticabile. Che cosa resta dell’Olocausto? La bellezza di un’installazione costituita da montagne di oggetti: scarpe, stracci e poco altro, mentre le teche e i pavimenti vengono puliti e lucidati distrattamente.