Photo: Skyler Smith.

Nell’epoca in cui l’immagine del mondo diviene mondo attraverso l’immaterialità della comunicazione massmediatica e digitale, la tradizionale rappresentazione geografica dello spazio non costituisce più un’evidenza. Quella cornice di senso fornita dalle “strisce” di testo che demarcano i confini tra continenti, paesi e regioni sulle carte topografiche, non esaurisce più la complessa matassa di relazioni che interessano la molteplicità di locali connessi dalle reti globali. Le continue e rinnovabili estensioni che la tecnologia ci consegna come tremendamente necessarie e uniche, costituiscono delle vere e proprie periferiche conoscitive in grado di aggiornarsi, interagendo con il nostro spazio vitale e sviluppando funzioni che a volte trascendono il nostro stesso comportamento. L’espansione del processo di crescita dei sistemi comunicativi consuma il tempo, decretando l’agonia del vissuto individuale. L’istantaneità permette scambi consapevolmente immateriali. La presunta “mutazione genetica” (Sartori Giovanni, Homo Videns) indotta dall’estensione dei nostri sensi attraverso le tecnologie di vecchia e nuova generazione modifica il modo di pensare e costruire lo spazio del vissuto, di immaginare e descrivere la poetica dell’essere al mondo. Di fronte allo spaesamento che segue all’immersione in un contesto dominato dalla pura relazionalità, le geografie della comunicazione provano a fornire una mappatura cognitiva degli invisibili flussi che sorvolando e penetrando i luoghi dell’abitare determinano processi di polarizzazione e gerarchizzazione all’interno dei territori.

Domodedovo Moscow Airport, Russia. Photo: Kyaw Naing.

È storicamente noto che la possibilità di telecomunicare in modo istantaneo, prima col telegrafo, poi con telefono e televisione e oggi attraverso quel regno multimediale che è internet, ha formato l’opinione di un mondo ristretto che vive nel ricordo dell’abusata metafora del “villaggio globale” di Marshall McLuhan. L’interdipendenza mondiale però, contrariamente a quanto si crede, non riferisce affatto della morte delle distanze, quanto piuttosto di una loro riconfigurazione sulla base di parametri di accesso. Il regno della “dappertuttità” non appare come il luogo dell’inclusione universale; al contrario, in questo teatro informatico una élite cosmopolita agisce, molto spesso, lasciando consapevolmente alla deriva una cospicua parte di umanità che, segregata e immobilizzata all’interno di territori che l’economia globale considera come nodi di un’intreccio di reti, esperisce nuove forme di esclusione e disagio esistenziale. La condizione di marginalità indotta dall’essere considerati abitanti delle periferie del mondo e marchiati come outsider dalla società dei consumi può provocare sentimenti violenti di rivolta che possono essere diretti verso l’interno o verso l’esterno delle comunità di appartenenza o del paese ospitante. Odio del sé, fondamentalismo, xenofobia, schizofrenia sono tra le possibili piaghe che riferiscono dell’incertezza e della difficoltà dei locali di resistere all’invisibilità e all’extra-territorialità dell’esercizio del potere economico globale nel passaggio dalla fase solida della modernità a quella liquida (Bauman Zygmunt).

Tel Aviv. Photo: Daniel Lerman.

È a questo proposito che Manuel Castells nota come alla portata globale della tecnologia comunicativa si affianchi una sua irregolare disposizione territoriale (Castells Manuel, Galassia Internet, pag.197), che determina quella distanza incommensurabile derivata dalla possibilità-impossibilità di connessione, nota come digital divide, sulla base della quale si costruiscono nuove condizioni di negazione della libertà e si esacerbano posizioni di rifiuto di un contatto paritetico con l’alterità. A questo proposito sembra evidente che ci si trovi di fronte a una nuova forma di colonizzazione che trae ancora una volta la sua forza dalla culla euro-occidentale, ma che diversamente dal passato non sembra tanto preoccuparsi del dominio politico sui territori quanto piuttosto di un loro sfruttamento in termini economici. Quella “fame di traiettorie”, “bulimia di movimento” (Virilio Paul, in Tursi Antonio, Internet e il Barocco, pag.147) che ha caratterizzato l’“America della perspectiva e della transapparenza” da più di seicento anni, diviene un fatto comune, un modus operandi condiviso e un processo che si estende su scala globale attraverso il protocollo internet.

Photo: Mari Goshar.

I locali allora si trovano a competere per partecipare e a partecipare per competere in un clima di “serrata concorrenza alla conquista della nodalità” (Bonora Paola, Comcities, pag.4), che vede soggetti spossessati del proprio corpo lavorare alacremente senza limiti di orari indossando quegli stracci che ogni giorno confezionano per quel mondo che li vorrebbe irrimediabilmente esclusi. È evidente che la globalizzazione oltre ad essere un fatto territoriale è anche e soprattutto una realtà psicologica e cognitiva, che trae la sua forza dal potere seduttivo della società dei consumi che diffonde quell’unico verbo che ha spinto Susan Sontag a definire il periodo epocale nel quale stiamo vivendo: “Era dello Shopping” (Sontag Susan, in Klein Naomi, No Logo, pag.524), in cui “libertà è sinonimo di consumo e realtà di immagine” (Bonora Paola, Comcities, pag.4). In un mondo pervaso dalla grandi cerimonie massmediatiche, il soggetto umano, che sostituisce il principio di realtà con quello di piacere, fa esperienza di una nuova condizione di pellegrinaggio nel tempo e di esilio attraverso lo spazio, che lo inducono a sviluppare un senso di responsabilità e di appartenenza fortemente ubiquitari. Nonostante l’importanza della fisicità dei luoghi non venga meno, l’immaterialità della comunicazione innesca un processo di integrazione tra spazio fisico e virtuale che assegna nuove valenze al concetto di territorialità (Fiorani Eleonora, La Nuova Condizione di Vita, pag.109).

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.