Proviamo ad analizzare un fenomeno importante per la cultura giovanile, nato verso la metà degli Anni Ottanta, ma che ancora oggi gode di grande rilievo in relazione alle riflessioni sulla convergenza tra musica e moda: l’underground. La cultura dei dance club è da decenni, soprattutto in Inghilterra, al centro delle trasformazioni della moda, dei gusti musicali, delle tendenze più innovative, nonché alla base di nuove pratiche di costruzione identitaria. Le culture legate alla musica dance sono state per lungo tempo vittima di retoriche, da un lato provenienti dal media istituzionali dall’altro nell’ambito delle scienze sociali, che le hanno identificate come il peggior simbolo della cultura di massa. Chi vi aderiva, veniva etichettato come un narcotizzato, un conformista, un soggetto desideroso di obbedire. Anche la tendenza degli adepti del rock e di molti studiosi di musica pop, di privilegiare l’ascolto rispetto al ballo, i musicisti dal vivo rispetto alla musica registrata, le chitarre ai sintetizzatori e campionatori, ha contribuito ad offuscarne la portata. L’interesse suscitato in seguito ha evidenziato, al contrario, un’apertura dello sguardo, che ha motivato lo studio dei comportamenti e degli ideali giovanili focalizzandosi sulle ricadute socio-culturali dell’etica del lose yourself, del let the rhythm take control, della total ecstasy, e sulla formazione delle cosiddette culture del gusto. I frequentatori di club e rave party si incontrano sulla base di un gusto musicale condiviso, del consumo degli stessi media e della preferenza di persone con gusti simili ai propri.
L’appartenenza viene definita inoltre a partire dalla dimensione estetica, che analogamente a quella musicale transita tra globale e locale, svelando scene in cui codificazione, gerarchie e conoscenze si distinguono attraverso il richiamo all’autenticità e all’essere hip in opposizione al mainstream. Ciò che determina però la carica avanguardista di queste culture, è la loro celebrazione delle tecnologie, e dei valori che ne derivano. È questa una storia fatta non solo di suoni, ma anche di trasformazioni che riguardano l’ambiente metropolitano: i rapporti tra economia e lavoro, nuove aree delle città che vengono abitate o occupate, nuove pratiche, pubblici e professioni, così profondi da determinare ideologie alternative, in una parola: sottoculturali. Queste leggono nell’esoterismo un richiamo alla purezza, all’esclusività, all’indipendenza e alla ribellione. Prendere le distanze dal mainstream e dai media di massa, significa infatti rifiutare la cultura familiare (dove per famiglia si intende quella d’origine, mononucleare e rigidamente eterosessuale, non quella acquisita che fa capo al concetto di comunità), patriarcale e lo status quo, per proporre nuove visioni del mondo, spesso tormentate, come denotano il consumo e l’abuso di droghe, ma sicuramente vive e partecipate. Nonostante ciò, la relazione tra i diversi media e le culture dei club non è così trasparente come potrebbe sembrare da questa prima distinzione.
Per dare un senso alla loro costituzione e sviluppo occorre analizzare l’intreccio tra la comunicazione di nicchia e quella di massa, prendendo in considerazione le conseguenze dei servizi giornalistici positivi e di quelli critici. Le storie negative da panico morale dei giornali scandalistici, di spettacolo, per esempio, hanno spesso l’effetto di attestare la trasgressione, legittimando le culture giovanili. Gli articoli positivi sui mass media, come la televisione, invece, sono per le sottoculture un bacio mortale, perchè significa che verranno presto integrate e fagocitate. Ad ogni modo, entrambe le tipologie di informazione, tendenzialmente, determinano il repentino abbandono dei segni identificativi della cultura in voga e la ricerca di nuove modalità di distinzione. Una distinzione che oggi non può essere interpretata alla maniera di Pierre Bourdieu, poichè di fronte ai dibattiti sulla radicalizzazione del postmoderno e la pervasività della comunicazione e degli spostamenti che comporta la globalizzazione, ci troviamo in una condizione di liberazione del dress code e di meticciato culturale, che sebbene non rendano obsoleto il concetto di undeground, lo cambiano profondamente dall’interno. Non per questo motivo vengono meno i richiami all’autenticità della strada, tanto quanto i fraintendimenti sul mainstream, considerato, principalmente in Inghilterra, come “sordo monolite” e non esso stesso stratificato e differenziato.
Col termine sottoculture si identificano quelle culture del gusto che tra il 1988 e il 1992, dall’acid house conducono al movimento rave, e che vengono etichettate dai media in quanto sottoculture. Analogamente la parola sottoculturale viene utilizzata come sinonimo di quelle pratiche che i clubber e i raver chiamano underground. Le ideologie sottoculturali sono un mezzo attraverso cui le giovani generazioni raffigurano il loro gruppo e gli altri, estrinsecando la loro volontà di potere per mezzo di un capitale sottoculturale e sociale, che diventa spendibile anche sul piano economico. Il capitale sottoculturale viene oggettivato nella forma dei tagli di capelli, nelle collezioni di dischi e nell’essere a “conoscenza di” (Thornton Sarah, Dai Club ai Rave. Musica, Media e Capitale Sottoculturale, pag.23) e naturalmente attraverso il modo di vestire. L’affermazione della distinzione sottoculturale inoltre traduce l’utopia di una società senza classi, poiché l’underground si qualifica come un tipo di conoscenza che non dipende dagli studi, dalla famiglia e dal luogo di provenienza. Nonostante ciò l’appartenenza etnica può costituire un problema; come pure è ambigua la presenza della componente femminile. Le ragazze raramente frequentano i club e i rave, di solito preferiscono la scuola e la musica pop commerciale, allo svago e all’essere hip. Questo è il motivo per cui il mainstream viene considerato “effeminato” e di massa. Va rilevato comunque che le sottoculture si formano idee sul mainstream a partire da informazioni di seconda mano – non frequentandone i locali – che provengono dalla televisione nazionale e dai giornali di spettacolo. Per cui le definizioni per opposizione si indeboliscono alla luce della consapevolezza del rapporto inscindibile tra media e cultura vissuta. Tanto che in Nordamerica il mainstream viene considerato un insieme di sottoculture, data la complessità di una situazione che vede la presenza massiccia della diversità etnica e in cui si assiste alla proliferazione di media locali, regionali e di nicchia. Nel Regno Unito, invece, sia tra i giovani che tra gli accademici, prevale un’idea più forte di mainstream, non solo per via del peso minore della variabile etnica, ma anche per l’importanza dei mass media nazionali con sede a Londra.
I clubber per definirsi usano il termine crowd, che indica un insieme frammentato e composito di persone che si riuniscono temporaneamente e ciclicamente in nome della condivisione di quella “seconda natura” che è la musica. Un sentire viscerale, istintivo, che oltrepassa le differenze sociali, di sesso e genere. Cosa che non esclude, anzi accentua, le differenze, che si stabiliscono a partire da questo sentimento di appartenenza, che struttura una serie di politiche di ammissione codificata che vanno dall’estetica corporea – riguardano cioè l’aderenza allo stile – alle selezioni all’ingresso. Più che sovvertire i modelli culturali dominanti, le ideologie dei clubber e dei raver offrono delle alternative, ossia altre gerarchie sociali con cui sostituirli. A partire dalla visione romantica secondo cui la cultura autentica sia estranea ai media, alla massa e alla colonizzazione delle corporation. L’ironia ci dice invece che sono proprio questi stessi media a forgiare le definizioni a cui le sottoculture, per natura frammentarie e confuse, si richiamano. Ogni scena musicale ha un modo diverso di rapportarsi ai media. La cultura acid house, per esempio, diventa cultura rave dopo una serie di servizi sensazionalistici sull’uso delle droghe. I media sono centrali nel processo di creazione dei gruppi a partire dalle parole. La nebulosa dell’underground viene definita da un intreccio comunicativo, composto da rimandi reciproci, che va dalla micro-comunicazione a diffusione locale – volantini e rubriche, che sono il mezzo utilizzato dagli organizzatori dei club per attirare e selezionare il proprio pubblico – a quella di nicchia – rappresentata dalla stampa musicale, che costruisce e documenta le sottoculture – ai mass media e tabloid di diffusione nazionale e internazionale – che cementano i movimenti giovanili tanto quanto li distorcono.
I fraintendimenti quindi non sono solo un effetto ma anche un obiettivo delle sottoculture stesse; campagne pubblicitarie impagabili che attestano la loro esistenza e il loro carattere trasgressivo. Capire il ruolo giocato dai diversi media e dai loro prodotti – spettacoli basati sulle classifiche discografiche nella programmazione televisiva di prima serata Vs programmi di tarda serata delle televisioni monotematiche a diffusione limitata; BBC Vs radio pirata; stampa scandalistica Vs stampa musicale; volantini Vs fanzine – all’interno della cultura giovanile significa analizzarne l’etica, da cui originano le teorie sull’essere hip, sul vendersi, sul panico morale e sull’essere banditi da alcuni media. Vendersi, per esempio, significa tradire, ossia vendere a un pubblico che eccede il mercato iniziale. Si tratta di una perdita in termini di capitale culturale, perdita del suo possesso, ed è allo stesso tempo una frattura dell’appartenenza esclusiva, uno sganciarsi volutamente dalla dimensione familiare. Significa, sempre secondo l’analisi di Sarah Thorton, percorrere la scalata delle classifiche di Top of the Pops (ai tempi unico music show trasmesso in prima serata e considerato il trampolino di lancio privilegiato per la cultura di massa e commerciale) contravvenendo al desiderio dell’apparizione dal nulla. I clubber e i raver nutrono infatti una profonda ammirazione per quegli artisti e quei pezzi che arrivano alle prime dieci posizioni delle classifiche, senza essere mai stati trasmessi in radio o in televisione, ma semplicemente perché sono stati ascoltati nei club, recensiti dalla stampa specializzata e gli album sono stati comprati solo dai clubber. Questo è particolarmente vero per le sottoculture giovanili inglesi, che pur non essendo anti-televisive, sono contrarie all’accessibilità generalizzata e alla diffusione allargata del loro capitale.
Questa puntualizzazione spiega la preferenza per MTV Europe, che essendo un programma monotematico che trasmette video e non organizza performance dal vivo in playback, permette alle band di farsi conoscere in maniera più autentica, se necessario, anche nascondendosi dietro agli avatar dell’animazione, non venendo meno all’aura dell’esoterismo. Il rapporto con la televisione è piuttosto ambiguo, poiché essendo un medium di immagini che occupa il tempo libero più di qualsiasi altra forma di comunicazione, si trova in una posizione privilegiata per mettere in crisi l’esclusività della cultura dei club, la quale, a sua volta, se non riesce nell’impresa di propagarsi oltre il mercato iniziale di fatto fallisce. La parabola dell’originalità e della creatività della musica e dello stile sottoculturali è segnata dalla consapevolezza di scivolare organicamente verso il mainstream. Prima però si parte dalla strada: regno del passaparola e della micro-comunicazione. Volantini, rubriche degli spettacoli, manifesti, fanzine, radio pirata, e successivamente mailing list e siti internet sono le modalità attraverso cui i clubber fanno circolare orizzontalmente le informazioni. Reti di comunicazione che solo gli adepti conoscono e sanno come esplorare. Il passaparola, in particolare, è considerato il mezzo privilegiato dell’underground. Il più rappresentativo, ma anche quello meno sviscerato. Molto spesso infatti si dimentica che le conversazioni tra amici sui club si basano implicitamente sull’aver visto dei volantini, l’aver ascoltato trasmissioni radiofoniche, l’aver letto articoli, l’aver vissuto in un territorio metropolitano disseminato di molti più messaggi di quelli che si vorrebbero raccogliere. Perciò il passaparola si profila come un’estensione di altri mezzi di comunicazione.
Allo stesso modo le concezioni romantiche della strada dimenticano spesso che essa è uno spazio di comunicazione e pubblicità, soggetto a ricerche di mercato e stime di vario genere, chiamate OTS (Opportunity To See). Per cui chiacchiere di strada e passaparola raramente sono così puri come i clubber vorrebbero credere, esattamente come le fanzine, considerate la quintessenza della comunicazione sottoculturale e della vita notturna, per via della loro dimensione locale. Le fanzine sono apparse in seguito alla diffusione del panico morale da parte dei tabloid, con lo scopo di fare chiarezza e contribuire alla valorizzazione dell’acid house, il cui battesimo è stato opera dei mass media, che con i loro servizi hanno identificato un fenomeno, che prima era solo un vago rumore di fondo. L’idea che le scene culturali siano seminate dalla micro-comunicazione, coltivate dalla comunicazione specializzata e raccolte dai mass media descrive più l’eccezione che la regola. Non c’è un ordine naturale nello sviluppo culturale, soprattutto all’interno del regime delle economie competitive, in cui diversi mezzi di comunicazione sono contemporaneamente al lavoro e dove appare sempre più evidente l’inefficacia delle metafore organiche sulla provenienza dal basso.
Nonostante ciò il passaggio dalla scena acid house al movimento rave è stato principalmente supportato dalla micro-comunicazione e dalle riviste di consumo sottoculturale, con le loro modalità di generazione della coscienza di gruppo. Dai volantini come arma di guerriglia semiotica, alle radio pirata come Kiss-FM London, poi legalizzata, a internet e alla possibilità di operare su scala globale, sino ai casi delle due antesignane delle attuali riviste di tendenza: The Face e i-D. The Face appare nel maggio del 1980, come parte integrante della New Wave dei club di Londra. Fondata dall’ex direttore editoriale del NME (New Musical Express), Nick Logan, viene subito salutata come una pubblicazione che non ha eguali e definita la bibbia dello street fashion. Ricorre sulla stampa dell’epoca: “The bible of street fashion is a magazine called THE FACE”…“Britain’s most fashionable and influential youth and style magazine”…“Vogue with balls”…“I’m not sure if the people who buy it can read, and I’m not sure if all of its contributors can write”…(la stampa britannica in seguito al lancio di The Face, May 1980; in The Face, May 2000, pagina del direttore editoriale Johnny Davis). The Face vanta l’onore di essere stata la prima pubblicazione a sondare nuovi territori della modernità: interessi legati alla moda e alla musica in seno alla cultura popolare. Sottolinea il direttore in occasione della celebrazione del suo ventesimo anno: “coming up! Urban hymns/garage babes/speed garage/slasher movies/drug stars/the beautiful and the damned in the face review of the year”… “In May 1980, THE FACE was launched to fill a vacuum. The big ideas was: pop culture is everything. Since issue one we’ve been rentless. We’ve launched artists and shops, Djs and models, designer and clubs, photographers and direct action. We’ve broken bands and taboos. We’ve been taken to court and the cleaners. And we’ve done it with a smile on our FACE. Twenty years on, and pop never seemed so vital. Flashback: ain’t nothing going’ on but history…” (The Face, May 2000).
Rivista d’avanguardia, irriverente e ricca di humor, considerata un’autorità in ambito musicale per più di un decennio, scivola anch’essa verso il mainstream. Il tempo la consuma, la fama la allontana, sulle sue pagine iniziano a uscire recensioni su personaggi famosi, le rubriche dedicate ai lettori vengono eliminate, l’attenzione per la scena dance si fa confusa, l’immagine diventa più patinata e edulcorata. Incapace di rinnovarsi di fronte alla proliferazione dei suoi cloni e al dominio incontrastato di internet, muore lentamente a cavallo del nuovo millennio. Responsabile di questo esito è stata la rivoluzione della redazione. Acquistata da una grossa agenzia pubblicitaria comincia ad avvalersi di collaborazioni lontane dal mondo della strada, dei club e ben inserite all’interno dei circuiti della stampa istituzionale. Dell’underground rimane solo la retorica, decisamente poco convincente. Di fronte a un declino però si trovano sempre nuove ascese. L’attenzione dei clubber si sposta da The Face a i-D. La quale già nel 1988 comincia una febbrile attività di ricerca di nuovi talenti da promuovere, che contrasta fortemente con le noiose recensioni sulle celebrità dell’ormai nota antesignana. Terry Jones, suo fondatore e direttore, la pensa inizialmente come una fanzine punk, pur essendo particolarmente attento alla grafica, alla fotografia e alla moda. Come dimostra il famoso logotipo, che viene reiterato anche nelle foto di copertina, con modelli e modelle che sorridono coprendosi o strizzando l’occhio destro. La trattazione di tematiche politiche e sociali, soprattutto nel corso degli Anni Novanta, le conferisce inoltre uno spessore che The Face non possedeva.
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.