Nelle città del Terzo Mondo si assiste alla riconfigurazione di un paesaggio anomalo, stupefacente e discordante, e di un universo segnico che rimette in gioco parametri consolidati e che incrocia orizzonti differenti. Lo scarto immaginifico rispetto all’Occidente permette l’alternanza di narrazioni fantastiche e reali, utopiche e personali, in un labirinto di edificazioni immaginarie che si ramificano in impressioni intime e salti futuribili propri di una soggettività che si fa e si legge nella protesi metropolitana. È il caso delle celebri maquette del congolese Bodys Isek Kingelez che prospetta un futuro fantasmatico e fiammeggiante attraverso lo sviluppo di un’utopia urbana protesa tra lo sviluppo ascensionale di torri e grattacieli, che irridono le più rigorose costruzioni contemporanee, e una pianta vorticosa che disloca liberamente architetture fantasiose e coloratissime, simili a costruzioni giocose, al cui interno la dimensione del loisir prevarica quella del lavoro.

 

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La manipolazione con cui decodifica l’assetto della metropoli, polverizzandone il cuore, attraverso l’uso quasi espressionistico del colore, scandisce l’idea di una città anarchica tessuta tra il margine del desiderio e quello del sogno, cresciuta all’ombra del disordine e della distopia (Macrì Teresa, Postculture, pag.116). È un modello di città quello di Kingelez che non si configura come completamente altro rispetto all’esistente ma che si realizza a partire da sollecitazioni realmente vissute in più mondi; dalle quali scaturisce una narrazione personalissima che reinterpreta, a partire dalle proprie radici culturali africane, il processo di modernizzazione: le seduzioni del mondo del consumo, del tempo del gioco e della verticalità. La trasformazione urbana che avanza solitaria, all’oscuro della modificazione della cultura e della socialità è invece il tema che sottende molti dei lavori di Wael Shawky, originario di Alessandria d’Egitto. L’artista, a fronte delle rapide mutazioni che interessano il territorio egiziano, dove il capitale mobile sta procedendo ad una localizzazione sempre più massiccia, riflette sulla condizione di livellamento culturale indotta dalla modernità globale, che attraverso l’esproprio delle tradizioni e delle radici culturali delle etnie induce ad una omologazione, che risucchia all’interno di una politica economica occidentalizzante le differenze culturali e le minoranze linguistiche.

 

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In Untitled viene presentata la “città che sale”, quella che avvolge la comunità intera nelle sue incongruenze sociali ma dentro lo stesso sistema linfatico di modernizzazione, sottolineando la pericolosità dell’assoggettamento ad una sola concezione del mondo e visione del futuro. In Yemen 2000 invece Wael ricostruisce un’immaginaria città, rappresentata da un’affascinante scultura in catrame, che evoca l’architettura yemenita, avanzando una polemica contro la spinta del consumismo a fagocitare la diversità e sottolinenando la conflittualità che questo territorio vive nel suo vacillante equilibrio politico (ibid: pag.76). La riflessione sui processi e problemi causati dall’estensione delle “new city” – agglomerazioni periferiche sempre più estensive, precarietà dell’edilizia sociale, condizioni di vita incerte in cui gran parte della popolazione è costretta a vivere – costituisce un approfondimento tematico caro a Rehab El Sadek, che prende forma nella produzione di elegiache e confuse aggregazioni architettoniche di case ed edifici barcollanti e sghembi.

Malick Sidibé, dal libro Mali Twist, Éditions Xavier Barral.

Realizzate in materiali fragilissimi, garza pigmentata e asticelle di legno, queste costruzioni tendono a sottolineare sia la precarietà del vivere, sia il bisogno di ricordare, nell’utilizzo dei materiali, la ritualità con cui gli antichi egiziani usavano la garza nella conservazione dei propri defunti (ibid: pag.78). Posizione differente dalle precedenti è invece quella del fotografo Malik Sibidé, che nei suoi scatti fa vivere anche l’Altro volto dell’Africa, quello che muta all’interno del contesto urbano in relazione alla diffusione della modernità e della progressiva importanza assegnata al tempo libero e al divertimento. Sibidé attraverso foto palpitanti, in cui quasi si odono i brusii delle feste e i respiri dei corpi affannati nelle danze, descrive una soggettività in détournement e una generazione giovanile che si abbandona alla pervasività della modernità. Riprendendo party, concerti, danze sfrenate, notti nei club di Bamako, racconta, attraverso il paesaggio cittadino, la grande trasformazione sociale e politica che avviene nel paese negli Anni Sessanta (ibid:pag.117), inquadrando la sfavillante vitalità di una metropoli in costruzione e leggendo nell’edonismo una risposta al “fallimento”.

Malick Sidibé, dal libro Mali Twist, Éditions Xavier Barral.

A partire dalla seconda metà del Novecento lo skyline delle città africane muta rapidamente. Il paesaggio, che si spacca incessantemente in una pluralità di frammenti, sfugge nella sua dimensione d’insieme, che si compone di realtà contrapposte e antitetiche che coincidono col massimo dell’agglomerazione urbana e la riduzione al minimo del territorio rurale. L’aspirazione ad incorporarsi alla città, alle sue seduzioni postmoderne, ai processi di assorbimento del soggetto nel suo congegno “macchinico” determina infatti l’abbandono, sempre più massiccio, del territorio suburbano. Analogamente succede in Asia e America Latina, dove la fame di spostamenti determina la congestione delle arterie urbane e lascia vivere indifferentemente affiancati progresso e degrado, shock delle culture e caos mundi.

Malick Sidibé, dal libro Mali Twist, Éditions Xavier Barral.

Esempi eloquenti sono le technocity dell’India dove utopistiche visioni del futuro divengono reali a fianco alla povertà ancestrale; le grandi città dell’Islam – La Mecca, Medina, Dubai – dove convivono ignorandosi antiche tradizioni, avanzatissimi scambi commerciali e la nuova urbanistica postmoderna; Bangkok, Hong Kong, Singapore che coniugano dimensione ludica e teatralità; le città giapponesi, anzi il Giappone tutto, dove si costruisce sotto, sopra e a fianco l’esistente, nelle viscere della terra, sulla superficie del mare, a più livelli e per frammenti, incastri e innesti; la sterminata ed effervescente Città del Messico, concentrato di esperienze e poetiche alternate, di pratiche e linguaggi disparati; Cuba, territorio in fuga, crogiolo di razze e di umori, spazio creolo, contrassegnato da un’identità in divenire; Buenos Aires, metropoli sconfinata in cui coabitano tango e originaria identità cosmopolita; San Paolo e Rio de Janeiro, dove l’ordine deflagrato determina l’inevitabile assioma del disordine ricombinante, e errabonde costellazioni dell’esistenza disegnano il lato retrostante della società consumistica moderna.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006. Riflessioni sullo spazio tra realtà, media e virtualità. Parte VI.