Le chiamavano le torri. Torri Balilla, torri Fiat. Erano una novità per il paesaggio italiano degli Anni Trenta. Edifici razionalisti minori, ma senza dubbio con un’importante missione sociale. Crescere sani e forti i piccoli Balilla, assistere i lavoratori, dando il privilegio ai loro figli di trascorrere una piacevole vacanza. Mare, montagna e sguardo rivolto verso il cielo, dove questi edifici svettavano e giù nella valle o sulla spiaggia schiamazzi e lunghe code di bambini. Dovevano essere così le ‘città dell’infanzia’, luoghi di sperimentazione di un sistema sociale forte e ordinato; dove salute e utopia incontravano l’assistenzialismo delle politiche dello Stato Fascista e della nostra amata ‘Fabbrica Italia’. Alte fino a quasi sessanta metri, le torri marine e montane non facevano che riproporre l’idea di corpo compatto della fabbrica e della caserma. L’organizzazione della vita sociale al loro interno era tipicamente moderna. Tempo frammentato in tante attività sequenziali: ordine, rigore e disciplina.
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Se da un punto di vista architettonico la disposizione degli spazi e la collocazione di queste ‘città dell’infanzia’, meglio conosciute come colonie, all’interno del paesaggio italiano richiamavano delle funzioni sociali ben precise, da quello personale ci troviamo di fronte alla ricostruzione di mosaici di ricordi a tratti nostalgici e felici. É la stessa Rita Pavone, nel libro di Gian Carlo Jocteau Ai monti e al mare, cento anni di colonie per l’infanzia (Torino, 1990), a raccontarci e ricordarci il privilegio di quelle ore spensierate: “Mio padre lavorava a Torino Mirafiori e io ho frequentato le colonie Fiat per sei anni, dal 1951 al 1956 […]. Conservo un bel ricordo della torre, delle sfilate sulla rampa, dei giochi, del cinema e della festa di fine turno in cui mi facevano cantare. Dal punto di vista alimentare per me era una vera cuccagna: a casa mio padre, con il suo stipendio, non riusciva a comprare tanta carne in un anno quanta ne mangiavo io in un mese in colonia. E poi ci davano la cioccolata per merenda di domenica e il latte col cacao a colazione”.
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Educazione rigida ma belle giornate per quelle centinaia e migliaia di bambini che dai tempi delle colonie del Duce, vestiti di tutto punto con le loro piccole ‘uniformi’, sono passati alla ricreazione e alla libertà vestimentaria dei ‘Centri Verdeblu’. A giustificare questo cambiamento di stile di vita e di immagine della colonia c’è senza dubbio la storia del dopoguerra. Un periodo di grande ripresa economica e di maggiore libertà sociale, che vede il definitivo tramonto delle politiche assistenziali delle origini e un rifiuto da parte, prima di tutto dei bambini, delle rigide regole del regime. I ‘Centri Verdeblu’ Fiat degli Anni Settanta rappresentano una grande innovazione, avvicinando i ‘soggiorni in colonia’ a delle vere e proprie permanenze all’interno di villaggi turistici. Un’educazione più permissiva, corsi di formazione per le educatrici, bambini divisi in piccoli gruppi e maggiore impulso dato ai valori che il marchio veicolava presso le famiglie dei lavoratori.
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Cambia la composizione. Se prima alle colonie andavano i figli di tutta Italia, ora con questa specializzazione la vacanza alla colonia diventa un fenomeno quasi esclusivamente operaio. All’uniformità organizzativa tipica degli Anni Trenta: alza bandiera, canzone del Duce, ginnastica, igiene personale, svago, pranzo, riposino, sport, lettere di mamma e papà, cena, spettacolo serale e altro ancora fino all’ora del silenzio, gli Anni Settanta sostituiscono uno spirito più ludico. Meno attività militaresche, una concezione del tempo più flessibile e più intrattenimento. Sono forse questi gli anni migliori per i bambini, quelli più divertenti. Ma anche quelli che portano all’estinzione di questa formula vacanziera. Con gli Anni Ottanta e Novanta sulla Riviera Adriatica in colonia iniziano a vedersi solo bambini stranieri: tedeschi, francesi, qualche nordeuropeo ed è un lento spegnersi delle ‘case per l’infanzia’. Sulla spiaggia i piccoli italiani in vacanza se ne stanno con mamma, papà, fratelli, sorelle e nonni al seguito, con sacchetti di giocattoli e oltre la pineta nulla più. Cespugli alti, abbandono, silenzio. Per chi si ferma rimangono solo le voci dei compagni incontrati nuovamente, ormai adulti, su Facebook, ruderi e ricordi. I tempi passano e di quei gruppi di bambini sulla spiaggia non vi è alcuna traccia. Niente pianti per tornare e niente capricci per andare. Lontano da casa, lontano dalla famiglia. Nelle parole dei più, quanta nostalgia, ma forse potremmo vederla anche così: quanta libertà.
Articolo pubblicato su Rent, il periodico sulla cultura dell’affitto, issue 07, 2011.