Tra musica elettroacustica e autobiografia prende forma l’universo allegorico e filosofico di Valerio Tricoli. Ingegnere del suono e improvvisatore radicale, con Miseri Lares, uscito su PAN nel 2014 e definito “un trionfo alchemico della moderna composizione concreta e d’avanguardia”, ribalta domande musicologiche in quesiti esistenziali, in un’opera disturbante e viscerale, in cui si incontrano strategie drammaturgiche, che determinano narrazioni esplose, introspezione psicologica e riferimenti letterari oracolari.
Dall’Ecclesiaste a Ceronetti, tra donne che piangono, incendi che divampano, tenebre e bambini che urlano, si consuma il dramma di un crollo spirituale. La domus, intesa come spazio fisico e familiare, diventa il teatro di un orrore rivolto verso l’interno, che prelude alla follia, attraverso tracce irregolari e labirintiche. In occasione del quarto appuntamento di Inner Spaces, la rassegna di musica elettronica curata da San Fedele Musica e S/V/N/, abbiamo incontrato Valerio Tricoli e assistito all’anteprima italiana del Williams Mix Extended, reinterpretazione del celebre Williams Mix di John Cage, realizzata nel 2012 con Werner Dafeldecker, e caso emblematico di opera concreta con una partitura musicale di partenza. Trentadue minuti, contro i quattro dell’originale, in cui sono stati utilizzati più di duemila suoni appositamente registrati, dando luogo a una trasposizione digitale delle centonovantadue pagine iniziali, pensate per nastro magnetico.
V: Il suono è un oggetto artistico inafferrabile, se non viene accompagnato dall’immagine, dal teatro, dalla figurazione mentale. Derrida però ha parlato del cinema come “scienza di fantasmi”. Trovo che sia una definizione molto appropriata anche per la musica. Che cos’è per te il suono?
VT: Per me è rappresentazione. Quando si entra nel mondo della musica elettroacustica e concreta, i suoni richiamano sempre un aldilà fisico e tattile, molto diverso dalla realtà di uno strumento. Naturalmente c’è anche chi legge in questa relazione uno slegarsi completo del suono dalla sua fonte originaria, al punto da considerare l’oggetto sonoro immerso in un vuoto, che potremmo definire, quasi semiotico. Questo non è il mio punto di vista. Per me il suono ha un valore anche metaforico. Nelle mie composizioni i suoni sono sia metafore di movimenti interiori, sia evidenti richiami a dei topoi. Delle porte che sbattono possono significare rabbia, clausura, tentativo di fuga. Rinviano a delle immagini mentali che si sviluppano a catena, creando una narrazione. Certamente la musica concreta, non dovendosi ancorare a una sceneggiatura né avendo come obiettivo quello di incontrare i gusti di un vasto pubblico, può permettersi di essere più sperimentale. L’inserimento in un’opera di un collage elettroacustico di quindici minuti non rappresenta un problema di comprensione per i suoi destinatari. La libertà del mio approccio al suono quindi credo provenga da una visione della narrazione che si avvicina più alla poesia che alla prosa, per sua natura più astratta, interna, criptica e dove l’ascoltatore è chiamato ad essere parte attiva del processo di significazione e di interpretazione.
V: Che rapporto esiste tra la realtà e la tecnologia nell’acquisizione e generazione dei suoni?
VT: Io mi muovo dalla realtà all’astrazione e dall’astrazione alla realtà. Acquisisco i suoni dal mondo fisico oppure li sintetizzo riconducendoli alla quotidianità. Anzi, devo dire che questo aspetto alchemico di generare dal nulla un oggetto sonoro, prendendo una materia astratta ed elettronica, mi interessa molto.
V: In un precedente articolo su Noisey, hai parlato della liberazione dei suoni durante il processo dell’ascolto, affermando: “Il mondo intrappolato negli speaker magicamente si libera nello spazio, anche se nelle realtà forse resterà sempre intrappolato. La casa si infesta con l’ascolto”. Cosa intendi per infestare? Assegni a questo verbo una connotazione fisica o di mistero?
VT: Riprendendo questo dialogo tra musica e cinema, fatta eccezione per alcune esperienze di Expanded Cinema, per me la narrazione cinematografica è drammaticamente confinata nella cornice dell’immagine. Se distogliamo lo sguardo dallo schermo incontriamo la realtà, perchè il cinema non è veramente nello spazio. Il suono invece infesta i luoghi, perchè si espande meccanicamente al loro interno, acquisendo varie connotazioni che generano emozioni e reazioni. Nella musica concreta inoltre, il suono può innescare un movimento di andata e ritorno, tra un Altrove dove è stato registrato e un qui e ora, dell’esperienza dell’ascolto. Se per esempio, aggiungiamo ad un suono molto reverbero, ci accorgiamo immediatamente che lo spazio a cui fa riferimento non coincide con quello fisico dell’ascolto. Al contrario se utilizziamo un suono molto asciutto e interagiamo col reverbero della stanza in cui ci troviamo, non abbiamo più lo stesso effetto di illusione spaziale. Il suono quindi può giocare con lo spazio e con i confini della percezione.
V: Passiamo dallo spazio al tempo. Recentemente ho riguardato la Trilogia di Bourne. Da un punto di vista narrativo, mi ha sempre affascinato l’interpretazione soggettiva della temporalità oggettiva, che può tradursi in ricordo, ricostruzione mnemonica, menzogna e flusso di pensiero. Il viaggio alla ricerca dell’identità del protagonista affetto da amnesia mi ha suggerito una riflessione relativa alla commistione di realtà esterna e interna. Rintracciabile anche nel tuo primo album. Come si incontrano in Miseri Lares la concretezza degli eventi e la tua vita psicologica?
VT: L’aspetto autobiografico è molto presente nel mio lavoro. Miseri Lares rappresenta la casa degli Usher, un crollo fisico a cui ne corrisponde uno spirituale e un luogo dove si sta consumando il dramma di un rapporto familiare. I Lari in latino sono delle divinità che presiedono alla salute e al benessere della vita domestica. Nell’album questi dèi diventano miseri, malridotti, traducendo metaforicamente i miei movimenti interiori. Anche nei titoli delle tracce c’è un ragionamento analogo. La Distanza, per esempio, trae ispirazione dalla raccolta dell’opera poetica di Guido Ceronetti, i cui versi vengono disseminati, con voci quasi irriconoscibili, lungo tutto il disco, riagganciandosi anche alla distanza reale dalla situazione personale una volta finita l’opera. Hic Labor Ille Domus et Inextricabilis Error traduce ancora una volta questo travaglio, dove però error non identifica l’errore bensì l’errare, cioè la difficoltà di districarsi in una situazione. La citazione è di Virgilio e fa riferimento al Palazzo di Minosse: casa e contemporaneamente labirinto. Quindi la domus è intesa come spazio fisico e metaforico, di un sistema di relazioni a cui non si riesce a venire a capo. Tutti i titoli rinviano a questo concetto di fondo della dimora come fragile e meraviglioso universo di cristallo. Das Schräg Haus significa “la casa strana” e suggerisce quel sentimento di improvvisa mancanza di familiarità che si percepisce in un luogo che dovrebbe essere familiare. L’unico titolo che si discosta un po’ da questo discorso è In The Eye Of The Cyclone, un pezzo che nasce dalla rielaborazione di un disco di alcuni anni prima, che ho inserito come contributo musicalmente autobiografico.
V: Da dove parti quando devi creare una traccia e come prende forma l’idea di un album?
VT: Facendo un parallelo con la scultura, parto da un set di suoni, registrati in maniera libera e comincio a intagliarli. Non inizio un disco pensando a un concept preciso, tanto che nella sua evoluzione, cestino moltissimo materiale. Non perchè si tratti di brutta musica, ma perchè non corrisponde allo scopo che progressivamente si va manifestando. In Miseri Lares, l’idea della casa non era assente, però ha avuto bisogno di tempo per emergere ed esprimersi. Il primo pezzo che ho composto, che poi è diventato l’ultimo nell’album, è partito da una mia registrazione mentre leggevo l’Ecclesiaste, prima di un concerto a Londra. Avevo bisogno di nuovo materiale per movimentare un set che trovavo troppo simile a uno suonato pochi mesi prima, così in maniera del tutto estemporanea mi sono registrato mentre recitavo alcuni pezzi di quest’opera, dopo essermi messo delle cose in bocca. L’impossibilità di parlare in maniera fluida ha conferito alla voce un suono un po’ “demente”, come se si trattasse di qualcuno imbavagliato. Da lì ho iniziato a lavorare e il pezzo si è trasformato, sono cominciati ad apparire donne che piangono, bambini che urlano, incendi, tenebre e tutto quel discorso che ho tradotto con il crollo reale e metaforico di questa dimora.
V: I suoni che registri sono trovati o ritrovati? Intendendo con quest’ultima parola la capacità di attivare la memoria.
VT: Il ritrovare fa parte di me, anche in senso fisico. Ho tantissimi minidisk, registrati a metà degli Anni Novanta, quando, come un appassionato di fotografia, documentavo tutto quello che incontravo. Mi capita spesso di rovistarci in mezzo tirando fuori del materiale da usare, perchè rappresentano un passato da cui ho preso le distanze ma che mi appartiene. Oggi registro molto meno e soprattutto lo faccio in interni. Quest’attitudine è molto presente nel nuovo disco, che parte dal crollo di quello precedente, per raccontare della condizione di sradicamento in cui mi trovo. In una città che non conosco, in una casa che mi appare come una stanza d’albergo, in un luogo in cui non voglio stare ma che non posso lasciare e dove il mio senso del domestico è irrimediabilmente perduto. Questo sentire mi ha spinto verso un lavoro, da un lato simile all’altro, ma con un movimento molto più psichedelico, che esprime il mio attuale bisogno di oltrepassare questo impersonale cubo abitativo.
V: Torna quindi quel concetto di “orrore esistenziale” che era presente in Miseri Lares? Quella paura introiettata che prendeva le distanze da quella oggettivata dell’horror classico?
VT: Sempre parlando metaforicamente attraverso il cinema, devo ammettere che mi sento vicino a pellicole come Una moglie di John Cassavetes, dove contemporaneamente viene presentato il lento declino verso la follia di una donna, con accanto un uomo che ci si deve confrontare. Si tratta di un film molto doloroso, di un realismo pieno di un orrore tutt’altro che oggettivato, dove diventa difficile comprendere la natura e l’appartenenza della sanità mentale. La stessa tensione è rintracciabile in Melancholia, di Lars Von Trier, dove il disagio psichico di un personaggio ci permette di scoprire in un secondo momento, che tutto il mondo che gli ruota intorno è malato. È un orrore-terrore che prende le distanze dal brutto sogno di un bambino tipo Nightmare. È un mettere in discussione l’esistenza come Cosmo e un faccia a faccia col principio del Caos.
V: Questo discorso sul movimento mi riporta all’idea di “opera aperta”. Per quanto abbia sempre apprezzato i robusti e inattaccabili sistemi filosofici, mi affascina la musica per la sua capacità di introdurre aspetti come la variazione e l’irregolarità. Qual è la tua concezione di opera?
VT: Le mie opere sono sempre incompiute, nel senso che si fondano su un’architettura labirintica, dove la percezione viene messa continuamente in discussione. Sono composte da moduli che si riconfigurano in modo diverso a seconda del punto di ascolto e dove la narrazione è cangiante. Il labirinto è uno spazio finito ma aperto, dove la fine è uguale all’inizio ed è difficile orientarsi.
V: Un’opera articolata ma chiusa, lontana dall’idea a-gerarchica e multilivello del rizoma. Giusto?
VT: Sì, esattamente. Trovo che il rizoma sia assimilabile più a un organismo. Mentre la mia visione si avvicina a quella di Umberto Eco, dove la messa in atto di una serie di strategie narrative determina la possibilità dell’opera di continuare al di fuori di sè stessa. Un libro come Infinite Jest, è un ottimo esempio: un oggetto finito ma che ad ogni lettura si riconfigura in modo diverso. Millecinquecento pagine fitte con una fine senza climax e dove tutti gli indizi sono disseminati nel testo, lasciando la libertà al lettore di dargli un ordine. Mi piace questa idea di puzzle e di enigma da risolvere.
V: Come la traduci in musica?
VT: Da un punto di vista metodologico uso i suoni come se fossero degli indizi: alcuni sono ovvi, altri potremmo definirli di genere, altri rappresentano delle metafore, altri ancora sono delle parole più o meno distinguibili. Compositivamente però non c’è consequenzialità tra loro. Li distribuisco in maniera caotica come sulla scena di un crimine. Questo aspetto viene ulteriormente articolato attraverso le titolazioni dei pezzi, che rappresentano altri indizi, nella forma di riferimenti letterari, che aiutano a comprendere più a fondo i temi che stanno dietro al lavoro. Cercando per esempio informazioni sulla citazione Hic Labor Ille Domus et Inextricabilis Error, si scopre sia che il concetto portante è il labirinto, sia la sua corrispondenza con quello di casa. Quindi, l’opera è aperta, ma sono io a porre le domande.
V: Che differenza c’è tra tracciare una direzione e fare una domanda?
VT: Sono due forme di controllo. La mia è più maieutica, l’altra invece ricalca una struttura, quasi da film hollywoodiano, che conduce lo spettatore verso determinate reazioni. È come la scena di “Oh Capitano, mio Capitano!” ne L’attimo fuggente, puoi vedere il film decine di volte ma comunque quando arriverà, piangerai. Esattamente come sulle montagne russe, a un certo punto ci sarà il giro della morte e griderai. Ecco: io non voglio costruire questo.
V: Quali sono le tue domande allora?
VT: Si tratta di domande musicologiche, tra cui la principale è quella che mette in discussione i confini dello spazio in cui ci troviamo. Una domanda che conduce a riflessioni profondamente esistenziali.
V: Approfondiamo ora il tema della voce in relazione a quello di “personaggio sonoro”. Le voci quasi irriconoscibili che si incontrano nei tuoi pezzi, a chi corrispondono?
VT: La voce che parla è sempre la mia, perchè le domande provengono da me anche se riguardano tutti. Poi ci sono altre voci, ma non corrispondono a qualcuno in particolare. Si tratta di registrazioni. I personaggi disseminati nelle mie tracce invece sono persone reali. Il secondo aspetto, più difficile da decodificare, è quello legato alla mia attitudine semi-nascosta di singer e songwriter, che è più riconoscibile dal vivo, dove ad una musica estremamente sperimentale e criptica si accompagna la fragilità dell’esposizione del perfomer mentre mette a nudo le sue emozioni.
https://www.youtube.com/watch?v=Kol-yujSzHU
V: Tre ultime suggestioni per concludere: i grandi autori, la memoria e il rapporto tra originale e copia. Mi riferisco naturalmente all’anteprima italiana del Williams Mix Extended, reinterpretazione del Williams Mix di John Cage, presentata al San Fedele in occasione del quarto appuntamento della rassegna Inner Spaces. Fonti, supporti, archiviazione dei suoni, durata, sono molti gli aspetti che hanno introdotto una radicale variazione e una maggiore complessità nell’opera iniziale, alla luce anche del rapporto tra analogico e digitale. Com’è nato questo progetto e come, tu e Werner Dafeldecker, lo avete sviluppato?
VT: Il Williams Mix è una composizione del 1952 e rappresenta un caso emblematico di musica concreta con una partitura di partenza. Aspetto assolutamente anomalo perchè la musica concreta nella definizione schaefferiana, si distingue da quella astratta, proprio per l’assenza di uno spartito, che rappresenta un oggetto musicale muto e che diventa un’opera, solo nel momento in cui viene suonato dai musicisti. Nella musica concreta invece l’idea è quella di generare, con sistemi di registrazione di qualsiasi epoca, un’opera fatta e finita, esattamente come un quadro o un film. Allontanandosi da questa distinzione, John Cage decise di fare un pezzo di musica elettronica, ottofonico e della durata di circa quattro minuti, scrivendo contemporaneamente una partitura di 192 pagine, in cui raccolse e mise in relazione tutti i pezzetti di nastro magnetico che servivano per realizzarlo. La sua idea era quella di rendere riproducibile un pezzo di musica concreta. Nel 2012, in occasione del centenario della sua nascita, io e Werner Dafeldecker, abbiamo pensato di omaggiarlo, rifacendo la sua opera più articolata, il Williams Mix su nastro. Naturalmente non abbiamo mai trovato i soldi per rifarlo su nastro, così lo abbiamo realizzato in digitale. Il primo aspetto interessante della trasposizione di una partitura pensata per il nastro magnetico in digitale è stata la ridefinizione del tempo. Esattamente come in una sceneggiatura i pezzetti di nastro magnetico corrispondono ad uno spazio, una pagina identifica circa un secondo, ma la variabile temporale andava riassegnata in maniera arbitraria. Analogamente, tutte le informazioni della partitura sono state tradotte in digitale, usando dei filtri e ricercando un senso sonoro per ciascuna. Un lavoro di reinterpretazione maniacale che, pur rimanendo fedele all’idea compositiva di base, ha portato il pezzo ad uno stretch di otto volte superiore, lasciando i confini del rapporto tra originale e copia abbastanza sospesi.
Intervista pubblicata su Espoarte.
Inner Spaces #4
scenari sonori a più dimensioni
a cura di San Fedele Musica e S/V/N/
in collaborazione con FAM e Archivio Storico Ricordi
centrosanfedele.net