Si è svolta su MYmovies.it, dal 23 febbraio al 2 marzo 2021, la XXIV edizione del Tertio Millennio Film Festival, il festival del dialogo interculturale e interreligioso organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo. Abbiamo intervistato Gianluca Arnone, direttore artistico insieme a Marina Sanna, per farci raccontare qualcosa di più sulla sua nascita, sull’importante tema di quest’anno “Vita Nuova” e su alcuni film che hanno avuto il particolare merito di risollevare le nostre coscienze su argomenti pregnanti come la Memoria e il Sacro, facendoci riflettere sulla necessità del cosiddetto “cinema spirituale”.
V: Il Tertio Millennio Film Festival è giunto alla XXIV edizione. Come, quando e perché è nato?
G: Il festival nasce ufficialmente nel 1997, per volontà di Papa Giovanni Paolo II che, pochi sanno, fu attore e drammaturgo, nel periodo precedente alla scelta di diventare sacerdote e pochi anni più tardi venne istituito dalla Santa Sede anche il Premio Robert Bresson (1999), conferito a quei registi di fama mondiale che si fossero distinti per il valore delle loro opere e per la capacità di affrontare tematiche di natura spirituale. Il Tertio Millennio si pone lo stesso obiettivo: andare alla ricerca di film non solo belli ma che manifestino una forte aspirazione nell’indagare i conflitti spirituali dell’uomo moderno e contemporaneo. Inizialmente era un festival di vetrina, che proponeva opere non necessariamente inedite in Italia ma che avessero questo tratto comune di interrogare l’essere umano sul senso ultimo delle cose o comunque, senza irrigidire troppo la visione, di stimolare un certo tipo di riflessioni. Nel 2012-13 quando sono subentrato nella direzione artistica insieme a Marina Sanna abbiamo cominciato a ragionare sull’introduzione di un concorso.
V: Quando ha preso la forma del Festival interculturale e interreligioso?
G: Nel 2015, dopo gli attentati al Bataclan, il dibattito sullo scontro di civiltà era diventato particolarmente acceso e sentito all’interno della comunità cattolica e del Vaticano. Inoltre Papa Francesco aveva fatto alcune dichiarazioni sull’ecumenismo e sul dialogo interreligioso, rapidamente colte dall’allora Presidente dell’Ente dello Spettacolo, che decise di abbracciare questa voglia di unione dando al festival una direzione interreligiosa. Ad essere invitate a farne parte furono per prime la comunità ebraica e mussulmana (il festival inizialmente era sostenuto dalle tre religioni abramitiche: cristiana, mussulmana, ebraica), successivamente l’invito fu esteso ad altre comunità, come gli ortodossi e la chiesa valdese. La naturale evoluzione è stata non circoscriverlo più alle sole religioni monoteiste, bensì conferigli una dimensione universale. Si è giunti così all’assetto attuale, non definitivo, e che mi piacerebbe riportare in parte allo spirito delle origini, quindi più orientato ad un “cinema spirituale” e di ricerca.
V: Cosa intendi per “cinema spirituale”? Da alcuni film, come This Is Not a Burial, It’s a Resurrection, emerge una visione anche socio-antropologica della religione. Un’esperienza che funge da collante comunitario prima di ogni istituzionalizzazione.
G: Aggiungerei al film che hai citato Liborio, in entrambi i casi si parla di manifestazioni sincretiche di esperienze religiose, che non sono riconducibili a una confessione tout court. Ci sono elementi del Cristianesimo tanto quanto animisti, molto legati alla cultura locale, autoctoni. Questa commistione è ciò che intendo per “spirituale”, quel movimento primo, che è l’apertura dell’Uomo alle verità più profonde del proprio Essere. Non la psicanalisi, che è un modo di indagare i meccanismi con cui agiamo e pensiamo, bensì il tentativo di connettere ciò che c’è di più profondo nell’Uomo con ciò che c’è di più profondo e di misterioso nella vita in generale.
V: Tenendo fermo quanto dici, come avvengono le selezioni?
G: Quando selezioniamo i film prestiamo attenzione sempre a due aspetti: prima di tutto che il film sia bello, perché dove c’è Estetica c’è tutto il resto, c’è una ricerca della Bellezza, della Forma, dell’Armonia o della disarmonia ma che sia comunque armonica, quindi una connessione con qualcosa che non è prettamente tangibile, poi che siano film capaci di parlare a tutte le culture e religioni. Dal nostro punto di vista l’elemento che riesce a far sedere attorno a un tavolo persone con background differenti è questa ricerca di ciò che ci accomuna nel profondo. Una ricerca che ci ricorda che il nostro essere al mondo è una domanda.
V: L’edizione di quest’anno si intitola “Vita Nuova”. Che cosa intendete con questo concetto? Suppongo non sia riconducibile solo all’esperienza della pandemia.
G: Esattamente, va oltre. È un concetto che non va confuso con la ripartenza. La Vita Nuova c’è adesso e c’era anche prima. Si tratta di prendere coscienza, chi più chi meno, che un cambiamento profondo, forse anche antropologico, è in atto. Questo cambiamento nelle nostre abitudini, negli stili di vita, esteriore, ha delle ricadute anche sulla nostra interiorità. Produrrà un orizzonte di senso diverso rispetto a quello a cui eravamo abituati, ma non è merito della pandemia che l’ha accelerato e imposto come tema. È un processo che è cominciato probabilmente con la caduta del muro di Berlino. È la trasformazione dell’Uomo innanzitutto, anche se parliamo di transizione ecologica, di nuovi modelli di sostenibilità, di tutti questi temi molto attuali, ad andare in crisi è l’idea di Uomo. Quindi più che la crisi sanitaria è la crisi degli intellettuali, la crisi del pensiero, che rende manifesta la difficoltà di ripensare il genere umano, l’essere umano e tutto ciò che riguarda la sua esistenza quotidiana: modelli politici, sociali, culturali, pedagogici, relazionali e anche tecnologici. La tecnologia in particolare è un campo pervasivo, ma fuori controllo. Nel senso che non abbiamo ancora sviluppato un pensiero su come gestire la nostra vita nel tempo tecnologico. Secondo me questa è la crisi dell’Umanesimo, che è cominciata con l’Umanesimo stesso e che è esplosa con la fine del blocco tra i due mondi, con lo scongelamento dei due schieramenti: il Capitalismo da una parte e il Comunismo dall’altra. Adesso la chiamiamo pandemia, però prima l’abbiamo identificata con i mutui subprime, con l’11 settembre, ma fondamentalmente fa tutto parte dello stesso processo di trasformazione.
V: Tra le folgorazioni c’è senza dubbio Oylem, con la sua capacità di ricordarci il potere e l’importanza della parola.
G: Oylem è un film incredibile, che parla della memoria attraverso la parola. Recuperare una lingua, recuperare la parola significa per il suo autore recuperare un mondo, nel senso di rinascere e rivivere. Oggi c’è un grande impoverimento linguistico, che è senza dubbio alla base di quello culturale. Se il primo passo per il recupero della memoria è quello della parola, il secondo però è questa scommessa straordinaria di raccontare la Shoah senza gli ebrei e senza i nazisti. L’ho trovato molto suggestivo, capace di rinviare quasi ad un immaginario distopico, anche se non c’è distopia. C’è al contrario un’elegia, un reincanto, poesia, vita. È un film pieno di vita nonostante sia un film sull’assenza.
V: Assenza di tutto. È un film completamente in voice over, quindi assenza dell’essere umano proprio.
G: Esatto. Il messaggio è: laddove rinascerà la parola, rinascerà l’umanità. Un volta che l’autore ha scritto il film, cioè si è dedicato in prima persona al recupero della parola yiddish, che è una lingua praticamente morta, che parlano in pochissimi, arcaica, molto musicale, melodica, poetica, ha già intrapreso il cammino per far rinasce un mondo.
V: Torniamo un momento a This Is Not a Burial, It’s a Resurrection, che racconta della profanazione totale di una comunità e della sua cultura.
G: Nel film, come dicevo, c’è questa dimensione molto sincretica dell’esperienza religiosa, ma soprattutto viene messa in scena la minaccia del Sacro. Nel momento in cui le truppe mercenarie al soldo del Sud Africa vogliono espropriare addirittura il cimitero della comunità per costruire una diga per portare l’acqua, emerge l’idea che noi oggi abbiamo del Sacro, come qualcosa di assolutamente rinunciabile.
V: Il Sacro è un altro tema centrale, che spesso viene confuso col religioso.
G: Il Sacro è il rispetto del Mistero della Vita. È un rispetto arcaico, ancestrale. Quando viene meno, l’essere umano muore.
V: Ci abbiamo rinunciato da tempo, mi pare.
G: Infatti stiamo rinunciando all’umano. Ci stiamo trasformando in consumatori o se vuoi, come diceva Umberto Eco, in Apocalittici. Non c’è più un’esperienza complessa dell’essere umano al di fuori di questo dualismo. Viene a mancare quel rispetto del Mistero della Vita, dell’Esserci, che è ciò che ci rende umani. Non voglio però trasferire una visione critica in senso negativo o punitivo, è semplicemente un dato di fatto.
V: Come si pone il Festival nei confronti di questa consapevolezza?
G: Il Festival nasce in difesa del Mistero. Per noi il cinema è Mistero, non finisce con la parola “Fine”, ma è un’immagine aperta, che interroga. Potrei dire che una costante di questo Festival e dei film che abbiamo scelto è l’apertura che rinviano i finali. Come in tutto il cinema alto l’immagine finale prelude a un’altra immagine, che non vediamo, ma che possiamo appunto immaginare. Il finale di The Last Ones con i due protagonisti che quasi cacciati dal Paradiso terrestre si inoltrano in un orizzonte vastissimo e pieno di luci, è un’immagine ambigua rispetto al loro percorso narrativo, che può sembrare una cacciata o un ritorno. La stessa immagine finale di Liborio, molto più iconica, che ci suggerisce un risveglio, una risurrezione, è un’immagine profondamente enigmatica. È vera, non è vera, è una provocazione? La stessa cosa si può dire del film del Lesotho di cui stavamo parlando (This Is Not a Burial, It’s a Resurrection), che solleva una riflessione possibile: in un mondo di soli uomini, l’unico guerriero è una donna.