“We Call It Avant Pop”. Per noi feticisti della rimembranza: un’escursione sonora per immagini e un’incursione immaginifica nei suoni. Non troppo dissimile dalla passeggiata fatta qualche tempo fa a Cracovia, tra le location passate dell’Unsound, in ascolto della presenza fantasmatica della sua memoria. Questa volta però siamo a Torino, senza le architetture post-industriali. Tra le pagine del libro che C2C dedica alla sua storia, quella città non c’è più. Il profumo della carta, i colori vividi, le campagne di Bellissimo, i fuori fuoco e i controluce. Le braccia alzate e, indimenticabile, il flyer finale (anzi un semplice foglietto di carta color arancio) con i nomi dei dj, anno 2000. Ci dicono: era il futuro ma ancora non lo sapevamo. Come si può ricordare senza le guance imperlate e salate? Senza che le parole più criptiche lette sulle pagine di Label, come “technodelia”, non diventino un treno (il Trans-Europe Express dei Kraftwerk? O di quelli costruiti dentro le Officine Grandi Riparazioni?) che corre rapido verso il passato? È tutto finito o non è mai cambiato? Ci siamo posti questa domanda durante il live di Romy, sul Main Stage. Ma potremmo fare riferimento anche a quello di Arca.

Main Stage, Arca. Photo: Kimberley Ross.
Main Stage, Mabe Fratti. Photo: Kimberley Ross.
Main Stage, Sega Bodega. Photo: Kimberley Ross.

Quando tra Avant e Pop, ci è parso che il festival avesse scelto ormai la strada del New Pop. E anche di un certo modello più vicino al Primavera Sound. Abdicando dalle sue origini, che vanno ricercate invero nel clubbing. Errore clamoroso, perché i nomi dei primi tre giorni, parlano chiaro. C2C è un oggetto sfuggente. Forse non è il festival più avanguardista d’Europa, ma sicuramente è quello in grado di dare la lettura più personale alla parola avanguardia. Risultando crossgenere e transglobale. Kode9 con l’Hyperdub 20 History Set (che avevamo ascoltato sempre all’Unsound) quanta nostalgia; l’atmosfera post-rave di Gabber Eleganza e di Bill Kouligas; Ben Ufo, Pangaea & Pearson Sound sullo Stone Island Stage, dire indimenticabili non basta; John T. Gast, che scoperta dal vivo; Verraco e la chiusura finale col botto di A.G. Cook, ci smentiscono. C2C non ha tradito il dancefloor, semplicemente quest’ultimo si è fatto mutante. E anche nella scelta degli artisti o della tipologia di set, nel modo di affiancarli e distribuirli, emerge questa sensibilità avant-pop. Questa capacità di essere inaspettati, tra presente e passato, pur rispettando le tendenze del momento e rimanendo fedeli a se stessi.

Main Stage, Romy. Photo: Fabiana Amato.
Main Stage, Verraco. Photo: LLumcollettivo.
Main Stage, Mabe Fratti. Photo: Ilaria Ieie.
Main Stage, Kali Malone. Photo: LLumcollettivo.

La parola fedeltà è senza dubbio anacronistica. Si posiziona in quella zona remota della mente in cui finiscono tutte le esperienze che vogliamo ibernare, perché non appartengono più al sentire contemporaneo. Eppure per C2C significa coltivare la propria identità, riuscire a mantenere una linea avventurosa ma cristallina, in un mondo di geografie sonore esplose. Di frammenti che si ricompongono nei modi più impensabili. E vuole anche dire amicizia, lealtà, corrispondenza tra la loro visione e quella di artisti che ricorrono negli anni. Pensiamo ai Darkside, che viaggio il loro live. Ma anche un momento per abbracciare una dimensione da concerto più vera, contraddistinta dalla presenza scenica fisica, dal suono e dalla voce. Senza troppe distrazioni visive, grafiche, o colori iper saturi. Certo, a parte il rosso. Un’immersione luminosa.

Main Stage, Sofia Kourtesis: Photo: Kimberley Ross.
Main Stage, Darkside. Photo: LLumcollettivo.
Main Stage, Nala Sinephro. Photo: Fabiana Amato.
Main Stage, Shabaka. Photo: Ilaria Ieie.
Stone Island Stage. Photo: Kimberley Ross.

La luce è stata una presenza creativamente impattante, soprattutto sullo Stone Island Stage, dove gli schermi sono stati abbandonati e l’architettura effimera veniva di volta in volta ricreata da fasci luminosi o pulsazioni. Futuristico! Proprio su quel palco si sono avvicendati il terzo giorno il rapper americano Billy Woods e la rapper londinese John Glacier, ricordandoci il potere della parola. Elemento poetico, di denuncia e anarchico di una performance. Ultime menzioni, ma non per importanza, perché tanti ne abbiamo tralasciati (tra cui l’attesissima Kali Malone e Mabe Fratti, che avevamo già visto e ascoltato ad Unsound e ROBOT): Sega Bodega, che non ci aspettavamo riuscisse ad essere un catalizzatore emotivo così forte sul palco, oltre ad essere uno dei producer più cool in circolazione, avendo lavorato con Björk, Rosalía e Caroline Polachek; il live a sorpresa dei Two Shell e il jazzista britannico Shabaka sul Main Stage, con il suo flauto e accompagnato dal suono di due arpe. Scelta inattesa all’interno di quella line up. Estasi sonora e visiva.