Il nuovo sistema di produzione, consumo e comunicazione che fa capo alla globalizzazione ci pone di fronte, come si è più volte ricordato, a un ripensamento di concetti, territori e modalità di acquisizione e configurazione del sapere in relazione alla centralità acquisita dall’essere erratico, con i suoi nuovi modi di rappresentare(si), generando connessioni e incremento di valore. In questo complesso processo di riposizionamento identitario sono coinvolte tanto le persone quanto i luoghi in qualità di terminali di molteplici reti e paesaggi di senso in perenne sinapsi trasformativa. Condizione che, se analizzata da una prospettiva multidisciplinare, permette di individuare fieldwork specifici e mappe di soggettività (persone, comunità, brand, industrie creative, agenzie di socializzazione, produzione, comunicazione, istituti di ricerca, figure pubbliche, sfere di influenza) coinvolte e intrecciate, mutuando e oltrepassando logiche di costituzione identitaria tipicamente moderne. Da qui l’interesse dimostrato nei confronti di quella nuova tendenza del markenting nota come nation branding o place branding che indaga il processo di costruzione immaginaria dell’identità di paesi, regioni, città, con lo scopo di strutturarlo e riproporlo in chiave strategica di fronte all’audience internazionale e globale.
Il punto di partenza di questo approccio consiste nel definire il contenuto dell’identità di un luogo in relazione ai suoi milieu: ossia quel tessuto culturale fatto di storia, opere, descrizioni, relazioni, miti e memorie che si producono nella condivisione di un territorio, reale e mentale, da parte di una comunità. Concetto che, sottoposto esso stesso a performance e dislocazione, comporta un’ulteriore riflessione circa la competizione tra entità un tempo distinte e di più o meno recente fondazione; andando anche a interrogare il moderno concetto di stato-nazione, in qualità di costrutto inventivo e artificiale, forgiato da processi di mutua osservazione, imitazione e trasferimento di idee indotti dalla mobilità, supportati dalla filosofia liberale e connessi alla nascita e allo sviluppo dell’economia capitalistica e del dominio coloniale. La sua realtà è perciò interpretabile a partire dalla definizione fornita da Benedict Anderson di “comunità immaginata”, identificando con essa uno specifico processo di coagulazione e sintesi della molteplicità e della diversità entro un sistema narrativo unico e lineare, in termini spazio-temporali e simbolico-valoriali, in grado di ritrovarsi nella finzione di una sola Storia e nella selezione, ideologicamente e politicamente determinata, di precisi miti di fondazione. Da cui la rinnovata consapevolezza della convergenza di una delle prospettive più avanzate dell’apparato tecno-scientifico-promozionale del marketing e della prassi moderna del circoscrivere e del sistematizzare, alla luce di nuove problematiche poste da un’epoca che recupera la complessità in relazione alla network society.
In altri termini, occorre comprendere come globalizzazione, mediascape e mercato mondiale dialoghino con le entità stato-nazionali e nazionali (un distinguo che apre ad una possibile separazione per via della loro differente natura: la Nazione viene intesa come una comunità di persone che condividono una particolare esperienza di vita, mentre lo Stato in qualità di istituzione politica di controllo di un territorio. Nell’era moderna per la prima volta queste due realtà distinte compongono un sistema unitario) determinando la revisione, il recupero o la crisi di tali concetti, di fronte a: nascita di identità altre, cosmopolite e multiculturali; riduzione delle identità territoriali a forme stereotipate e facili da consumare secondo i dettami del turismo e della moda; emersione di nuove spinte nazionalistiche, etnocentriche e tensioni xenofobe di matrice razziale, religiosa o economica; dislocazione cognitiva dell’idea di nazione in relazione alle diaspore culturali e al nomadismo informatico e comunicativo; presenza all’interno dei territori di marchi di respiro globale ed organizzazioni internazionali o non governative che innescano processi di de- e riterritorilizzazione dinamica, delocalizzata e evenemenziale; dialoghi a distanza che promuovono la costituzione di nuovi centri di produzione immaginaria che competono su scala globale con quelli istituzionali, come nel caso di Bollywood Vs Hollywood; presenza di nodalità geo-comunicative glocali: dai mondi Disney, ai mall, agli aeroporti che, contemporaneamente luoghi di flusso e di sosta, connettono territori reali e immaginari recuperando valori e simbologie culturali particolari tanto quanto comuni alla world society; costituzione di subculture e lifestyle alternativi facilitati da contatti interculturali (dove per cultura si intende anche quella prodotta da consumo, moda, musica, sport, cinema, tv, pubblicità) e connessioni multietniche; emersione e sfida lanciata dalla four world population, ossia da quelle nazioni indigene che non rientrano nelle gerarchie di stati che fanno capo ai tre mondi e ai loro network informativi e di attività. E che più in generale Manuel Castells identifica con l’espressione quarto mondo e col fenomeno di esclusione sociale generato dalla competizione globale per il potere e le risorse.
Condizione che, nota come digital divide, interessa porzioni di continenti, paesi, città e vari tipi di persone e sollecita nuove esigenze di organizzazione collettiva che promuovono la costituzione di sistemi di relazioni e configurazioni geopolitiche autonome che travalicano i confini dello stato-nazionale e agiscono glocalmente attraverso netwars, impiegando tecnologie di seconda e terza mano. Da questi nuovi assetti deriva la necessità di discutere le implicazioni tra globalizzazione e postmodernità, il ruolo dello Stato e l’essenza dell’identità nazionale, in relazione a reticoli di potere e di significati altri che mutano lo spazio storico, socio-culturale e economico in intrighi di movimenti e progetti deterritorializzati. Soggetti essi stessi alle pressioni del consumo e all’influenza di personaggi pubblici di rilievo e brand con vocazione transnazionale e globale. Sono queste le ragioni dell’attuale incertezza in merito all’identità e all’appartenenza, che se dà un lato determina nuove identità cosmopolite e policentriche e incoraggia la traduzione culturale e anti-racist topics, dall’altro apre ad una molteplicità di opposizioni culturali, religiose e economiche – fondamentalismi, neonazionalismi, etnicismi e nuove politiche delle origini, dell’autenticità e delle tradizioni – che rimettono costantemente in discussione il sistema stesso.
L’emergenza della multividualità, intesa come identità fatta pluriappartenenze, identificazioni e posizioni contrastanti, palesa i limiti dello stato-nazione come corpus coeso, evidenziando nei legami che lo compongono la crisi del trattino che unisce due concetti, non più corrispondenti. Anzi diciamo piuttosto che è la nazione, ora multisfaccettata e dislocata, a porre seri problemi alle capacità legislative e di contenimento dello stato. La nazione intesa come “primary – and chosen – identity” (Castells Manuel, in Georgescu Anamaria e Botescu Andrei, Branding National Identity) sopravvive nonostante e insieme ai sommovimenti attuali, intesi come dislocazioni fisiche e cognitive, continuando ad assicurare: coesione, riconoscimento e condivisione di valori; coagulando sul piano dell’immaginario: geografia territoriale, in movimento, storia, memorie e credo religiosi. E ciò accade poiché è il soggetto a guardavi criticamente e coscientemente – soprattutto a fronte della possibilità di possederne più di una – inscrivendola in percorsi guidati dal principio del positioning.
Questa dinamica riguarda la nazione anche quando la si considera nella sua veste istituzionale, dove il futuro le è garantito dalla capacità di dialogare con altre tipologie identitarie: legitimising identity – che esprime la ricerca di una risorsa di autorità e è rappresentata da strutture di governo e istituzioni -; resistance identity – che si traduce nell’opposizione a forze dominanti -; project identity – che, emergendo dalla precedente, la oltrepassa in vista della partecipazione a più sistemi di relazioni, contesti socio-culturali e politici: dalle tribù alle unioni – (Castells Manuel, in Georgescu Anamaria e Botescu Andrei, Branding National Identity). Come nel caso del confronto con l’identità europea: ossia con un’identità che la fa vacillare e insieme la sostiene, essendo forgiata in nome di un passato condiviso sopra a quella dei paesi membri con lo scopo di creare una macro-area di influenza in grado di competere con gli USA.
Un supremazia metanarrativa, che vorrebbe riportare l’attenzione su una rinnovata centralità europea in merito agli affari internazionali, ricollocando le nazioni in una prospettiva storica e sovrastorica e assegnandogli il ruolo di motori semiotici e fondi di valore e di sapere in sinergia con i brand e i personaggi pubblici che le caratterizzano e potenziano. Le marche infatti, come mettono in rilievo le analisi di Mauro Ferraresi ne Il Dolce Tuono, trovano nelle nazioni un luogo ideale da cui attingere in valori, creatività e identità, funzionale alla strutturazione e alla credibilità delle loro narrazioni. Allo stesso tempo le nazioni intese come complessi “sistemi culturali di significazione” (Bhabha Homi K., in Fiorani Eleonora, La Nuova Condizione di Vita, pag.234), ossia come rappresentazioni presenti in tutti gli aspetti della cultura e della vita sociale, del modo di vivere, pensare, immaginare, sentire, fare letteratura, cinema, arte, musica, moda, si configurano come narrazioni produttrici di narrazioni, che a loro volta le reiterano, riproducono e nutrono.
Di qui la circolarità tra le marche e le nazioni, e i loro mondi immaginari che si coimplicano e implementano, tanto quanto il pericolo nell’era della comunicazione globale di ricondurre la nazione stessa a una marca: a un territorio codificato e stereotipato, sia sul fronte culturale che valoriale, astorico e estraneo alla differenza, nel suo versante critico, esattamente come i parchi tematici, i megastore e le stesse città come Celebration. Si aggiunge l’ulteriore e possibile esito perverso connesso con l’appiattimento dei brand che la rappresentano e divulgano nel mondo, che finiscono con lo stilizzare tanto l’identità nazionale quanto il proprio stile e col ridurre il proprio spazio simbolico e di produzione. È questo il caso del Made in Italy che, nel processo complesso di ristrutturazione territoriale e finanziaria della moda globale, da emblema del modo italiano di fare le cose – di associare atmosfere, qualità della materia, creatività e industria – trasla a vago e rigido immaginario di italianità – in parte diretto dall’esterno, per mano delle holding o reiterato a seguito di una sorta di effetto boomerang e nostalgico che motiva la vestizione dei sogni precedentemente veicolati e delle immagini del successo.
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006. Wonderland, Parte I.